«First reaction, shock!», lo confesso. E c’è poco da ridere. Mai ritrosia nello scrivere di un libro fu più alta di quella in cui incappai nel lontanissimo gennaio 2021, ovvero quando giunse tra le mie grinfie il romanzo di Giulio Mozzi, intitolato un po’ franzenianamente “Le ripetizioni” (Marsilio, pag. 368, Euro 17).
Intanto, l’autore. Provate voi ad andare a mangiare nel ristorante di Antonino Cannavacciuolo e a dare un parere – da schifiltosi ignoranti della vera cucina – sul suo celeberrimo “Spaghetto al nero di polpo”. Beh, leggere e poi commentare un romanzo di Mozzi espone a rischi simili. Ricordate la storiella del “Chi sa fare fa e chi non sa fare insegna?” Forse è arrivato il momento di sfatare questo mito. Mozzi, consulente e curatore editoriale, autore di racconti magistrali, è uno che di scrittura ha nutrito schiere angeliche di aspiranti e sfere celesti di editori affamati, con la bava alla bocca, di esordienti da dare in pasto al mercato. Fai conto Cannavacciuolo al culmine della sua carriera di chef.
Mi ricordo uno sketch dei Broncovitz. Crozza e compagni intenti nel consegnare il premio alla carriera ad un vecchio e derelitto, ma famosissimo regista. Tra le domande di rito, prima della consegna del premio, ce n’è una classica: maestro, ma come ha fatto a venirle in mente un’idea tanto geniale? Il regista si guarda attorno un po’ stupito e poi risponde: “Ecchennesò – ammette. – Mi pareva strano… Tutto qui!”. Crozza lo incalza, ma ci spieghi maestro, la prego, argomenti la sua affermazione! Ma quello non sa dire di più: “Che te devo dì: era strano, talmente strano…”, ecc..
Non lo so se questo ricordo televisivo c’entra effettivamente con il libro di Mozzi. È che anche a me pareva “strano” citarlo qui. Così come mi pareva “strano” all’inizio il libro, a cominciare dalla copertina. Ogni capitolo, richiudevo il tomo e mi fissavo sul giovinetto ritratto in prima: “Ma tu che diavolo ci fai qui?”, gli domandavo ad alta voce. Chissà. Forse pareva strano anche al grafico di Marsilio. Boh!
Insomma, la genesi del mio avvicinamento a “Le ripetizioni” continua.
Lo prendevo, ne leggevo un po’, poi lo riposavo, ripetendo fra me: no, non ce la posso fare. In periodi di depressione latente come questo è meglio evitare libri e autori che ti facciano sentire ancora più ignorante di quanto tu non lo sia già. Insomma, la faccio breve, ho deciso di andare fino in fondo la sera in cui ho guardato “Tenet”, il nuovo incredibile film di Christopher Nolan (per inciso, anche a lui dev’essere parso molto “strano”…). L’indigestione di relatività temporale quella notte non mi ha fatto dormire, ma mi ha fornito una sorta di tuta spaziale per affrontare ogni tipo di paradosso. Tutti. Da Achille e la tartaruga a quello del mentitore, dal paradosso di Parmenide a quello di Sinope il Cinico. Potevo dunque affrontare il libro di Mozzi. Il tempo era giunto. Occhiali e matita a me! Avevo sviluppato sufficienti anticorpi. E avrei finalmente saputo di che morte sarebbero morte le mie fesse velleità di critico letterario.
“Le ripetizioni” è un romanzo che abiura i vincoli narrativi classici (cronologia, rapporto di causa effetto). Quanto è strano il mercato editoriale italiano (pure lui! Ma non sempre “strano” è sinonimo di genialità, però). Da una parte abbiamo i commissari, i vicequestori, le architettrici, le Gerda Taro, le Lee Miller, gli avvocati seriali, dall’altra un libro che si può leggere a piacere, cominciando da pagina 1 o da 123. O magari al contrario, come fanno i correttori di bozze. (E se ci avete fatto caso, anche questa recensione gli assomiglia). Ah, e questo libro fa paura.
Insomma, c’è ‘sto tizio che si chiama Mario, un padovano con l’espressione un po’ così, che non indaga su nessun delitto, non fa autofiction, non cerca pietismi o facili moralismi, non ammicca al lettore. È solo pronto a prenderci per mano per condurci nei claustrofobici abissi del male. E del dubbio. (Sono veri i ricordi? I profumi? Le fotografie? La finzione è in grado di manipolare la realtà?) Ma niente paura, però, dopotutto “la morte è la fine dell’illusione e quindi dell’infelicità”. Allora di che diavolo ci stiamo preoccupando?!
Se Nolan sarebbe felice di sapere che in questo libro ogni cosa avviene o è avvenuto un 17 di giugno (perfino la nascita dello scrittore), un po’ meno – secondo me – i lettori in cerca di sicurezza. “Le ripetizioni” infatti offre l’esatto contrario. Destabilizza, sconvolge, strappa gridolini di puro terrore. In “Tenet”, come nel nostro libro, il tempo è una serie ininterrotta di infinite ripetizioni in cui estinzioni di massa si alternano a costruzioni di civiltà, big bang ad altri big bang, universi si espandono e poi collassano senza requie, nella vertiginosa entropia del tempo.Come facciamo allora – dicci, Mario, orsù! – a non impazzire sul tapis roulant illusorio del mondo? È semplice, grazie alle news. Vi siete accorti che abbiamo sviluppato una vera ossessione in merito? L’ultima cosa che facciamo alla sera prima di andare a dormire e la prima che facciamo al mattino appena svegli è guardare le notizie sul cellulare, le novità sui social. Un trucco che abbiamo escogitato per godere della sensazione che il tempo passi, ovvero che la vita abbia o segua una direzione. L’illusoria, catartica freccia del tempo.
Mario è disilluso. Vuole sposare Viola, ma ripensa a Bianca, l’ex, madre di sua figlia. Allo stesso tempo è prigioniero delle perverse manie di questo tizio, Santiago. La felicità per Mario non esiste proprio perché non esiste il senso che le farebbe da stampella. “Che importa se le nostre vite, la vita di chiunque, sono vere o inventate?” si domanda. E sai che c’è? Che potrebbe non accadere nulla. La sua vita potrebbe proseguire, stancamente come per molti, a fatica, incespicando, ma andrebbe avanti. Non fosse per l’odore del bosso. Sì, ad un certo punto è questo aroma che lo trasporta in un’altra scena, infantile e remota: quella del parco della cittadina in cui è cresciuto, San Daniele del Friuli. E tutto cambia e si innesca. Non ho ancora deciso se l’illuminazione di Mario sia da accostare più alla madeleine di Proust o più al cavallo di Torino di Nietszche. Converrete con me che la differenza non è proprio da poco.
«First reaction, shock!» (specie se deciderete di partire dall’ultimo capitolo, parental advisory). Quindi preparatevi. Ma a cosa, esattamente? Cerco di spiegarvelo citandovi un passo di “Sapiens. Da animali a Dei”. In esso Yuval Harari scrive che il cervello umano è fisiologicamente incapace di pensare in termini di fisica quantistica e di relatività. Per questo i fisici devono in un certo senso riuscire ad abituarsi a qualcosa di completamente nuovo. No, non un semplice cambio di lingua, ma la mutazione della forma di pensiero. Questo potrebbe significare che il nostro cervello abbia a disposizione più cassette degli attrezzi, perfettamente complementari tra loro. Ma l’evoluzione ci ha istruiti all’utilizzo di una soltanto. Quale sarà adunque la cassetta più idonea per leggere assennatamente “Le ripetizioni”? Un libro che rompe gli schemi non solo del prodotto editoriale classico (ed è paradossale come proprio Mozzi, talent scout e direttore di collane, scopritore di talenti, si discosti-dissoci qui brutalmente da certe logiche); schemi in frantumi, i cocci sul pavimento e noi a piedi nudi, ma nelle pagine si gioca con la logica, sovvertendola, facendo di tutto per non offrire al lettore le tre “C” che probabilmente si aspetterebbe. Consolazione, conforto, conferma. Ma vivaddio, se drammaticamente scarseggiano oramai nel mondo in cui viviamo, per quale ragione le si dovrebbero ritrovare in un libro?