Una delle più complesse e indecifrabili iconografie, almeno per noi occidentali, è sicuramente quella indù, al pari di quella buddista tibetano-nepalese. Un groviglio di nomi e di aggettivi, di ruoli e di sdoppiamenti, di incarnazioni, di forme, regole e misteriose corrispondenze con la natura e il cosmo ci gettano nella disperazione. Quando pensiamo di essere arrivati almeno al primo gradino della conoscenza, di fronte alla raffigurazione dei grandi spiriti, degli dèi, di Buddha e di Jaina o delle Yogini teriantropiche, l’improvvisa apparizione di un nome sconosciuto, di una posizione anomala o di una ricchezza di attributi inusuale sembra invalidare tutto il lavoro. Recentemente sono apparsi due splendidi volumi che ci danno un assaggio sull’arte indiana, stilati da Cinzia Pieruccini (Einaudi): l’autrice ci consegna almeno un filo d’Arianna che scorre lungo i millenni affinché il nostro sguardo e la nostra mente non si disperdano nelle intricate foreste delle Sundarbans, la più grande foresta di mangrovie del mondo. Ma a noi, voraci curiosi, non basta rimanere nei seriosi canoni della storia dell’arte ufficiale, pretendiamo di più, vogliamo capire la simbologia che sta dietro a ogni forma, a ogni gesto, a ogni colore, segno e magari anche suono. Basterebbe il piccolo volumetto di Andanda Coomaraswamy, Lo specchio del gesto di Nandikesvara (CasadeiLibri), ovvero la traduzione di un antico trattato indù sull’arte del teatro e della danza, per capire la varietà infinita di “mudra”, o segni formati dalle posizioni delle mani, i quali costituiscono un vero linguaggio ieratico che del resto si ritrova in tutta l’iconografia indù. Qualche briciola di informazione ce l’ha consegnata Michel Delahoutre ne Lo spirito dell’arte indiana (Jaca Book) ma il vero studio approfondito si ritrova negli unici due libri tradotti in italiano di Robert Heinrich Zimmer. Il grande indologo tedesco, amico di Carl Gustav Jung, dovette lasciare la Germania nazista per la sua pubblica opposizione al regime e per aver sposato Christiane von Hofmannstal, la figlia dello scrittore Hugo, di origine ebraiche. Riparato a New York morì nel 1943, a soli cinquantatré anni, di polmonite ed è grazie all’amico Joseph Campbell, altro eccellente studioso di mitologie e folklore, che i suoi studi sono stati raccolti e pubblicati, aprendoci in tal modo il mondo dei simboli e delle forme archetipe dell’arte indiana e delle sue contaminazioni con l’arte greca, celtica e del popolo delle steppe.
Miti e simboli dell’India e Il re e il cadavere (Adelphi) ci introducono, attraverso storie, leggende, legami, intrecci e snodi, nell’intricato mondo iconografico indù offrendoci in maniera semplice e scorrevole le varianti iconografiche che ci conducono oltre gli oceani, oltre i deserti, fino ad approdare nelle forme narrative delle gesta di Merlino e dei cavalieri della tavola rotonda. Mai come oggi abbiamo bisogno di queste guide redatte da maestri e studiosi della simbologia, particolarmente utili nella nostra epoca, nella quale gli uomini hanno perso la facoltà di vedere gli dèi direttamente – una cosa normale in ere passate –, per cui ora, più che mai, sentiamo l’urgenza di immagini e di edifici adatti a custodirle. Immerso nel piacere di raccontare, ripercorrendo le avventure mirabolanti di eroi leggendari, indagando e collegando le immagini e i simboli di tradizioni religiose orientali e occidentali –, così ben riassunte da Alfredo Giuliani (La Biblioteca di Trimalcione, Adelphi), Zimmer ci dice che l’insegnamento che si trae da questi viaggi iconografici è che «a nessuno è permesso di rimanere a lungo quello che è».
L’estetica indù, che rivela in parte la natura profonda degli esseri, gioca sull’armonia dell’universo in continua mutazione. Heinrich Zimmer ci ha, se non spalancato, almeno socchiuso la porta per comprendere queste armonie.