Solidarietà

Solidarietà

 

Ciao figlia mia,

scrivo questa lettera in modo che tu la possa leggere quando io sarò morto, non so perché la scrivo e non so neanche perché ho scelto di dartela quando io non ci sarò più. Ti ricordi che non ho mai voluto raccontarti cosa facevamo e cosa fosse successo durante l’Olocausto, oggi te lo dirò ma parlerò come se fosse il giorno di quel 23 dicembre del 1945.

Io, Joe Frank, sto tornando dal negozio di giocattoli quando vedo dei signori davanti a casa mia. Mi avvicino piano piano perché non li conosco, ma uno di loro mi guarda e mi riconosce, subito si avvicina e mi dà la mano dicendomi «Buonasera signor Frank, sono il giornalista Alexander Handerson e questo è mio fratello e scrittore Richard Handerson».

Gli stringo la mano sempre un po’ diffidente, ma lui mi dice: «Non abbia timore, non sono uno di quei giornalisti che le viene a chiedere una testimonianza. Io e Richard volevamo pubblicare il diario di sua sorella Anne, ma visto che è l’ultimo della sua famiglia le volevamo chiedere il permesso e anche una sua opinione perché alcune cose le abbiamo un po’ cambiate».

Io sono l’ultimo rimasto della famiglia Frank e anche di tutti gli “abitanti” del rifugio. Ho accettato l’idea del libro anche se con riluttanza. Quella sera è rientrata mia moglie Elisheva, ma che tutti ormai chiamiamo Elisabetta, insieme a nostra figlia Madison. Io e Elisabetta ci eravamo incontrati ad Auschwitz. Le ho detto del libro ma non ho avuto il coraggio di leggerlo quella sera. Il giorno dopo non stavo tanto bene quindi non sono andato al lavoro; io ho completato la scuola l’anno scorso e ho iniziato a fare il geometra. 

Visto che non sono andato al lavoro e mia moglie accompagnava Madison all’asilo nido e poi andava al lavoro, mi sono messo a leggere il libro. Già alle prime pagine mi venivano le lacrime agli occhi e mi riaffioravano i ricordi. Mi è venuto in mente il giorno del compleanno di Anne: lei era molto agitata e mi aveva svegliato, mentre andava a svegliare mamma e papà. Io le regalai una gonna azzurra, un golf giallo e un cappellino giallo. 

Ho cinque anni in più di Anne e quando la mamma e il papà e poi Margot sono andati in Olanda mi sono preso cura di lei e cercavo di farla stare serena. Più tardi abbiamo raggiunto i miei genitori in Olanda. I nostri parenti erano rimasti in Germania ma per fortuna alla fine sono riusciti ad andare in America (ora vivono a 20 km da noi); anche noi dovevamo andare in America, ma ormai era troppo tardi. Mi ricordo bene il 1940 quando iniziò la guerra e la situazione peggiorò con la capitolazione e le leggi antisemite. Queste leggi dicevano: gli ebrei devono portare la stella giudaica, gli ebrei devono consegnare le biciclette, gli ebrei non possono prendere il tram, gli ebrei non possono andare in auto, gli ebrei non possono fare acquisti dalle 15 alle 17, gli ebrei possono andare solo dai parrucchieri ebrei e molte altre leggi.

Che simpatica che era Anne, sempre a chiacchierare e a fare la sciocchina, tranne quando era depressa e stava nella sua stanza chiusa per ore. Mi Ricordo bene il giorno in cui arrivò la convocazione per Margot dalle SS, ci siamo subito preoccupati e abbiamo capito che da quel momento si era clandestini e che nessuno tranne alcune persone avrebbe saputo della nostra esistenza. Ogni volta che suonavano alla porta, dovevamo stare zitti e io o mia mamma sbirciavamo per vedere chi fosse. Grazie a Miep e a Jan riuscimmo a portare più cose al nascondiglio. Progettammo di andare nel nascondiglio la mattina senza valigie ma solo con la cartella (per non destare troppi sospetti). Io nella cartella misi due libri di studio, tre libri da leggere, la foto della mia ragazza Sara (che non rivedrò più), alcuni fazzoletti, delle penne e fogli, tre coltelli e altri utensili da cucina e in una scatola nascosta misi tutte le caramelle preferite di Anne e un po’ di cibo.

 Ad un certo punto ritornò Elisabetta e vedendomi in lacrime mi disse: «Cosa succede Joe? Hai iniziato a leggere il diario?». Io le dissi di sì e le dissi che non sapevo che Anne avesse scritto un diario e che scrivesse così bene… povera, si era dovuta nascondere a così pochi anni senza avere la possibilità di salutare i suoi amici.

«Dai su Joe, non fartene una colpa». 

«Ma tu pensa una ragazzina di tredici anni che va per due anni a vivere in un nascondiglio, senza andare in giro e parlando sempre con le stesse persone per di più alcune scorbutiche». 

«Ti ho detto di non fartene una colpa e ora vieni di là a pranzare che ti ho portato il tuo piatto preferito».

Quella notte non riuscii ad addormentarmi e quindi presi il diario e andai in soggiorno vicino al caminetto a leggere. Lessi il capitolo in cui parlava del trasloco e mi ricordai bene di quanta energia aveva appena arrivata. Mi ricordo che insieme disfammo gli scatoloni, facemmo i letti e il giorno dopo spazzammo e pulimmo, ma non bisognava stare vicino alle finestre finché io e mio papà non le avremmo oscurate. Io durante gli anni al nascondiglio cercavo di essere il più gentile e di aiutare tutti, ma alcune volte erano davvero insopportabili i Vann Daan (l’altra famiglia che era venuta con noi al nascondiglio). La mattina in cui abbiamo scoperto la porta aperta ci siamo spaventati a morte, io e Peter siamo andati a controllare l’intera casa ma non avevano scassinato niente e avevamo capito che d’ora in poi bisognava stare attenti perché il ladro aveva la chiave d’ingresso.

Ogni giorno che passava, le persone che ci avevano aiutati (erano alcuni colleghi di papà) ad esempio Miep, visto che ci annoiavamo ci portavano alcuni giochi in scatola o una volta, visto che mangiavamo sempre le stesse cose, ci aveva portato sei torte e diciassette vasetti di marmellata. Invece Kugler per una settimana mi aveva insegnato come intagliare il legno e così quando non sapevo cosa fare prendevo del legno, da una cesta data da Kugler e mi mettevo ad intagliarlo. Bep invece veniva con noi ad ascoltare il telegiornale e poi se ne andava, era un tipo molto gentile ma allo stesso tempo molto strano. Kleiman portava dei pezzi di vestiti o pezzi di stoffe e anche gli arnesi per cucire e io e Anne ci continuavamo a pungere… però ridevamo moltissimo, soprattutto quando la signora Vann Dann si pungeva e dava la colpa al marito e si mettevano a litigare. Io mi ricorderò sempre di Miep, Jan Gies, Kugler, Kleiman e Bep perché è solo grazie a loro che non ci hanno scoperto fino ad un certo punto e che non siamo morti di fame e di sete. Hanno rischiato tutto per tentare di salvare me e la mia famiglia. È uno degli esempi di solidarietà, a parer mio, più grande. Sono le cinque e mezzo del mattino e ho appena finito di leggere il diario, non penso che andrò a dormire perché mi ha riempito di ricordi ed emozioni, appena saranno le sei e mezza andrò a consegnare il diario a quei giornalisti e a dare il mio consenso alla pubblicazione.

Oggi è il 25 giugno 1947, giorno della pubblicazione, non so perché hanno voluto aspettare quasi due anni, ma so che questo libro farà storia e che aprirà il cuore della gente.

Tuo padre, Joe Frank

Pubblicato da Mattia Basso

Con questo racconto, Mattia Basso, studente dell’ITT Buonarroti di Trento, si è classificato terzo ex-equo al corso/concorso “Stories d’Istanti”, di cui è partner la nostra rivista