Soggiogati dalla sindrome di Peter Pan

Soggiogati dalla sindrome di Peter Pan

Ci ritroviamo per una serata tra coetanei. La pizzeria pullula di adolescenti e feromoni se ne vanno zigzagando per l’aria come pallottole vaganti; così noi cinquantenni pensiamo che il locale farà fatica a digerirci stasera. Ed invece, la titolare vedendoci entrare ci fa capire che non sarà così: “Voi non avete prenotato, ragazzi ?!” Noi ci scambiamo sguardi interrogativi; un po’ sconcertati, facciamo segno di sì. Poi, stranamente, ognuno comincia a guardarsi i vestiti, qualcun altro cerca di specchiarsi nel vetro del bar controllandosi le rughe e la stempiatura. Tra noi ci sono due paia di sneakers, molti “mi piace”, pantaloni attillati, giacche molto strette, alcuni ciuffi improbabili. E la signora ha detto proprio così: “ragazzi” ci ha chiamati. Vabbè. Ci sediamo. La serata però comincia con questo strano e inquietante preambolo fatto di malinconia. Stiamo in silenzio, ignorando le notifiche di Facebook, guardando tutti quei giovincelli attorno, scacciando i feromoni come fossero zanzare.

Voglio dire, quando i nostri padri avevano cinquant’anni nessuno si sarebbe sognato di chiamarli “ragazzi”. Anche perché per loro la sindrome di Peter Pan era solo il tema di un film della Disney. Non ci pensavano proprio ad atteggiarsi a post-adolescenti, anzi, avveniva esattamente il contrario. Erano i ragazzi (quelli veri…) che provavano ad assomigliare agli adulti, mettendosi la cravatta, tenendo una sigaretta tra le dita, rendendosi economicamente indipendenti fin dai 14-15 anni.

Ma che società è questo luogo in cui non si riesce più a intuire l’età delle persone? Dove l’invecchiamento non è più un punto d’orgoglio e di dignità, ma una specie di malattia da nascondere e da non dire? Questo luogo in cui i genitori preferiscono acconsentire passivamente anziché provare con fatica a motivare un “no”? Dove ambiscono segretamente a diventare “fratelli” e “sorelle” dei propri figli?

Perché il danno maggiore la sindrome di Peter Pan lo sta arrecando proprio all’ambito educativo. E si badi che diciamo “danno”, ma dovremmo parlare di vera e propria catastrofe. Tutto è cominciato quando questo paio di generazioni nate attorno agli anni Settanta del secolo scorso, cresciute a pane, schiaffoni e austerity hanno trovato naturale e ovvio, diventando madri e padri, evitare ai propri figli proprio quegli schiaffoni e quell’austerity. Al grido di: “Io sarò un genitore migliore”, hanno sollevato questi neonati in sala parto e hanno immaginato per i propri pargoli un futuro radioso, a cui li avrebbero preparati non facendoli mancare nulla, immergendoli in un’atmosfera famigliare buonista e lassista, instaurando con loro un rapporto “ragionevole”, amicale, complice. Insomma, si sono preparati – forse per la prima volta nella storia dell’umanità – a confondere i ruoli. Si badi: non alzando l’asticella della maturità dei figli, bensì abbassando quella della propria. Sì, in quel momento si sono convinti di aver trovato il segreto della felicità famigliare, si sono chiesti come avevano fatto quegli squinternati di padri, nonni e tutte le generazioni precedenti ad essere stati tanto idioti da rendere infanzia ed adolescenza dei propri figli una specie di inferno.

Così arrivati ai trenta, nel nuovo millennio, non hanno appeso al chiodo le all-star né hanno rinunciato alle pulsioni goliardiche, a certe ambizioni, agli happy hour; arrivati ai quaranta non hanno smesso di giocare a calcetto, di dare confidenza agli amici dei figli, di andare in moto; attorno ai cinquanta, a dare una mano in questa corsa al massacro educativo, sono arrivati i social network, invogliando al cazzeggio, al turpiloquio, all’italiese, al qualunquismo estremo, alla confidenza digitale con chiunque di qualunque età. Il risultato? L’allestimento di generazioni impreparate a vivere. Come mandare astronauti su un altro pianeta, con un razzo superveloce e ipertecnologico, lasciando a terra malaccortamente i generatori d’ossigeno.

I “no” e le restrizioni non avevano insegnato forse a sopportare le future frustrazioni della vita? La fastidiosa applicazione delle regole fin dalla più tenera età non aveva forse preparato indirettamente al mondo del lavoro? Il complotto ordito dai genitori in combutta con gli insegnanti su quanto la scuola avrebbe dovuto esigere non aveva forse consentito di accettare la presenza di un’autorità, di tenere ben distinti i ruoli, di valorizzare il merito, di inculcare il rispetto, di apprezzare la bellezza e la conoscenza?

E allora perché diavolo non si è continuato a seguire quella strada? Perché abbiamo così clamorosamente scantonato, consentendo oggi a qualcuno di chiamarci “ragazzi” anche se abbiamo oramai quaranta, cinquanta o sessant’anni?

Qual è il motivo? Ci siamo illusi, sbagliando, che invertendo la rotta educativa avremmo reso i nostri figli più felici o per pigrizia o narcisismo abbiamo definitivamente abdicato al ruolo di genitori perché era più comodo così? In definitiva, lo abbiamo fatto pensando al bene dei nostri figli o più egoisticamente solo per noi stessi, per risparmiarci lo strazio e la fatica dell’educare?