Una vita si può raccontare veramente solo quando quella vita non c’è più. È soprattutto per questo motivo Marta Barone inizia a farlo solo due anni dopo la scomparsa di suo padre, Leonardo. Ma sia chiaro da subito che sorvolerò brutalmente sull’indagine ben costruita e relazionata nelle pagine del romanzo “Città sommersa” (Bompiani, 2020, 296 pagine, Euro 19), risultato di incontri, interviste, ricordi attraverso i quali l’autrice – tra memoir e “make of” – ci porta negli anni Settanta della lotta operaia e del terrorismo. E lo farò non solo perché altri e più illustri recensori l’hanno fatto prima di me, ma perché questo libro ha il pregio di avere almeno due anime. Ed è della seconda che voglio qui parlare. Quella più metafisica, intima e simbolica, che meglio ha saputo abbracciarmi come lettore. E perché è in quel territorio che l’esperienza della lettura mi ha magicamente portato. (E pazienza se la scelta a qualcuno non piacerà.)
Milano, autunno 2013. Marta e sua madre sono in una libreria non lontana da Porta Venezia. Le due donne si separano brevemente, scegliendo ognuna un piano della libreria. “Quando risalii – scrive la Barone – lei si voltò verso di me, sorridente ed accaldata, successe qualcosa (…) come se per quell’attimo il passato, il presente e il futuro si fossero sovrapposti. (…) Mia madre mi apparve nel tempo”.Il passo mi ha subito riportato alla mente il famoso episodio che nel febbraio 1974 vide protagonista un altro scrittore, Philip K. Dick, quando aprì la porta di casa al fattorino della farmacia, che doveva consegnargli degli analgesici. Era una giovane ragazza dai capelli scuri che portava al collo un pendente a forma di pesce. Per farla breve, il luccichio di quel ciondolo “portò” Dick da un’altra parte. O meglio gli concesse una visione della realtà, che guarda caso non era quella che credeva di aver vissuto fino a quel momento. “Come se fossi stato pazzo per tutta la vita e improvvisamente fossi diventato sano”, ammise Dick, qualche tempo dopo.L’episodio della libreria milanese è riportato solo a pagina 18. All’inizio, quindi. Una sorta di chiave di lettura che mi ha aperto porte nascoste tra le righe e che, se non avessi notato – fuorviato peraltro da note di copertina che fanno pensare ad una specie di giallo, nonché da una copertina e da un titolo che giudico quanto meno riduttivi –, avrebbe fatto di questa recensione la “solita” recensione, e della lettura un’onesta lettura d’evasione o poco più, con ricordi che evocano la nostalgia. Ma Marta Barone e la sua famiglia non hanno “diritto alla nostalgia”. Perché – così scrive – “noi non eravamo normali”. Il racconto delle vicende del padre, il cercare di saperne di più sulla sua giovinezza, sulle tre lauree, sul processo che lo vide imputato per “partecipazione a banda armata”, passano in secondo piano per quel che mi riguarda. E quando Marta scrive che stava “sollevando una pietra sotto cui fermentava un’oscurità molto più vasta di quanto ero disposta a sopportare” si riferisce ad una “vita sotterranea che scorreva in parallelo a quella visibile”. Questo libro si schiera così contro quella che Cristina Campo chiamava “la dittatura del visibile”, perché a saperli leggere sono tanti gli indizi che affiorano, mentre la narratrice si accorge di vivere su un “piano differente”, alla continua ricerca di un’illuminazione che peraltro arriva sempre, anche quando non percependola si è supposto fosse stata “respinta da una forza misteriosa”.E si badi che Leonardo – il medico, l’operaio, l’altruista, il ribelle, il sognatore –, a ben guardare, aveva “qualcosa di straordinario, di magato, qualcosa che tutti quelli con cui parlai mi nominarono senza riuscire a definirlo; non aveva a che fare solo con la generosità, o con il carisma”. Forse perfino il terribile dono di vedere in faccia il mondo così com’è.Una vita si racconta veramente solo quando quella vita non c’è più. Solo così avremo la certezza definitiva che quella vita ha avuto uno svolgimento, mediante un «momento di percezione lucidissima del corpo presente». Ulteriore conferma che noi stessi viviamo, seppure su un piano differente.