Un nuovo anno ha appena spalancato le braccia per accogliere l’umanità convalescente, o quasi. Già. Il 2020 non è stato certo uno scherzo, per chi ce l’ha fatta a vederne la fine. Di solito il nuovo anno porta sensazioni positive, incoraggiate da una lista dei buoni propositi che tradizionalmente si stila proprio in queste settimane. Stavolta, come uno che l’ha appena presa sul muso, ce ne stiamo indolenziti e pensierosi in un angolo. Abbiamo quasi paura a sostituire quel calendario sul muro della cucina. Come se cambiare l’ultima cifra di quei quattro numeri potesse in qualche modo destabilizzare uno status quo.
Così il sapore della ricorrenza quest’anno è curioso, agrodolce, quasi amaro. E strano. Così come è strana questa parola: “ricorrenza”. Cioè, che ritorna con regolarità, ciclicamente.
Mi ci ha fatto pensare Massimo Coppola, con un bell’articolo uscito sul quotidiano “Domani” in cui, a sua volta, egli citava il filosofo René Girard, secondo il quale il rito non è che la ripetizione, sublimata e liberatoria, di un sacrificio ancestrale.
Partiamo dal presupposto laico – estremamente laico – che vivere sia abitare un’incertezza. Un anno nuovo, ma pure il mio compleanno, il tuo anniversario, la partita a carte del sabato pomeriggio (quando si poteva farla), la cena dei coscritti, il carnevale, ogni tipo di ventennale o cinquantenario, nozze d’argento-oro-diamante, il Festival di Sanremo, i gironi del campionato di calcio. Ma “ricorrenze” sono anche cambiare l’automobile, rifare il tetto di casa, farsi il ritocchino dall’estetista. Tutti progetti e punti fermi che ci aiutano a tirare delle righe, a rendere cioè un po’ meno incerta quell’incertezza, a mantenere un certo contegno “sociale” nell’apparente assurdità dello scorrere del tempo (apparente a sua volta, peraltro).
Naturalmente le cose cambiano, e non di poco, per chi ha fede, per chi cioè crede in un qualche tipo di scopo trascendentale, un significato che giustifica l’incessante vagare nel labirinto degli anni. In tal caso, ogni dubbio è bandito e quel che potrebbe apparire assurdo – quasi come in un gioco di prestigio – diventa spiegabilissimo. Con la Fede tutto si riveste di un significato ultimo, sebbene, come scrive Tommaso d’Aquino, la fede comporti un discreto sacrificio dell’intelletto. Ma tant’è. (Ciononostante anche in quel contesto i riti non mancano, e ricorrono incessantemente, la precisione di un metronomo.)
Un metronomo, ecco. Forse questo rende bene l’idea. Le ricorrenze sono come quel ticchettìo che aiuta lo studente di musica ad andare a tempo. A tenere una velocità costante, seguendo il pentagramma dei giorni. Una guida, un segnalatore, un indicatore di direzione, un salvifico bugiardino. Come se la vita fosse un lungo viaggio interplanetario con destinazione ignota e le ricorrenze stazioni spaziali segnate con grande precisione su una mappa perfetta che però presenta un’unica grande pecca: quella di non riportare alcune informazione riguardo la destinazione finale. (E lasciamo da parte la fisica quantistica per questa volta, altrimenti il viaggio perderebbe perfino la propria direzione, il verso, assumendone infiniti…)
A ben guardare, anche la Natura contribuisce a quest’opera – come chiamarla meglio? – di rassicurazione, regalandoci ogni volta qualche grammo di senso in più. Pensiamo alle maree. Oppure all’alternarsi delle stagioni. Lo stesso succedersi del giorno e della notte (se proviamo a immaginare una vita senza riferimenti temporali, settimane, anni, giorni è facile che ci parta un brivido lungo la schiena).
Perfino le fasi lunari ricorrono, disegnando quasi una struttura sull’esistenza, un’unità di misura per determinare qualcosa che non conosciamo. Un orologio invisibile il cui ticchettìo consente di accettare la linea senza fine dell’orizzonte cosmico che debolmente balugina, laggiù, oltre i bastioni di Orione.
È un nuovo anno, dunque. Accostiamo con cautela l’astronave e facciamo un bel pieno di carburante. Tra tutte, il cambio di data annuale pare la stazione spaziale che rifornisce meglio e di più, credenti e atei, scettici e devoti. Tutti. Approfittiamone adesso. Che dopo non si sa. E il viaggio è ancora lungo.