Se un falegname provasse a raccontare ciò che fa, sì insomma il suo lavoro; se un muratore si cimentasse nel far capire come si fa il cemento o come si tira su un muro a piombo; se un orologiaio si lanciasse nella spiegazione del complicato meccanismo di un cronografo. Per quanto minuziose potrebbero essere le loro descrizioni, mai e poi mai si avvicinerebbero, nemmeno lontanamente, alle affascinanti alchimie della scrittura, all’inscindibilità tra vita e lavoro di cui ci parla Charles Bukowski (1920-1994) nelle sue lettere, oggi raccolte tematicamente in un volume da Guanda Editore (ma ve ne sono altri: sul bere, sui gatti, sull’amore…). Una serie di pubblicazioni che rende finalmente giustizia alla serietà e alla profondità di questo autore.
Perché in Italia, Bukowski è sempre stato considerato quello delle “parolacce”, delle sbornie selvagge e poco di più. Una macchietta. Una sorta di fenomeno da baraccone della macchina da scrivere. E invece il vecchio Hank – non dimentichiamolo – era anche un grande poeta. In quello che aveva da dirci – con le opere e con gli scritti “sulle” opere – c’è una prospettiva molto più profonda. Qualcosa che ha a che fare con il nostro stare al mondo e che passa attraverso lo scrivere, inteso non tanto come commercio o evasione estetica (nel nostro Paese, lo sappiamo, sono in pochi oramai a non aver pubblicato un libro), quanto come drammatica alternativa al vivere. “Se scrivi solo per diventare famoso butti tutto alle ortiche”, scrive Charles nel 1988, togliendo ogni dubbio sulla sua visione della realtà: da una parte c’è la vita con le sue miserie, dall’altra lo scrivere con il suo disgusto per la vita. Con un rischio annesso. “Gli unici scrittori che scrivono bene sono quelli costretti a scrivere per non impazzire”.