Aperitivi in allegria, auto sportive che attraversano agilmente scenari da sogno, ragazzotte e ragazzotti in calore, gente che esce a cena, che va a una festa, che va sempre e comunque a divertirsi-da-far-paura. Ma la più bella l’ho vista proprio ieri: il titolare di una banca meneghina con un’incredibile app che ti permette di movimentare denaro con lo smartphone! Minchia, signor tenente! Tanto di cappello. Se non fosse che nella reclame si vede la solita gente felice e sorridente che – si badi bene – riceve pagamenti. Sì, forse è una specie di strumento magico, una macchina alchemica per trasformare il piombo in oro.
Stiamo parlando degli spot pubblicitari televisivi e della loro sempre più flebile adesione alla realtà. Per dirne una, avete fatto caso che negli spot non c’è più nessuno che lavora? Nessuno che svolga alcun tipo di mansione o attività retribuita. Proprio così. Nelle reclame, oggi, si vede solo gente che al di là degli impegni di cazzeggio e apericena mostra di non dover fare assolutamente nulla per guadagnarsi da vivere. Un segno dei tempi, certo.
Pensiamo infatti al passato, alle pubblicità e al Carosello di qualche tempo fa. Chi non ricorda quella del mitico pennello Cinghiale, con l’imbianchino in bicicletta perso nel traffico stradale? Oppure Ugo Tognazzi impiegato modello nel 1962 nella reclame della Negroni? O ancora, Gino Bramieri, testimonial della biancheria Movil per la Montecatini che, seppure con risultati scadenti, s‘improvvisa addirittura in diversi lavori.
O quell’altro carosello interpretato da un giovanissimo Dario Fo nei panni di un improbabile sarto a caccia di malviventi (e per fortuna c’è la benzina Supercortemaggiore a risolvere la situazione…). Appresso, Erminio Macario nei panni del signor Veneranda che mette in difficoltà vari impiegati e sportellisti nel carosello dello Stock 84. E Tino Buazzelli che porta la spesa a casa e recita una poesia di Trilussa per la carne Simmenthal, vuoi mettere?
Voglio dire, era normale vedere gente che lavorava negli spot, dai! Farlo oggi probabilmente ammanterebbe il prodotto di un alone di negatività. È per questo che lo scenario tipo delle nostre vite “pubblicitarie” è diventata la “festa”. Gli spot oggi non pubblicizzano più pennelli, carne in scatola, liquori, bensì uno stile di vita virtuale, ideale e finto. Che l’anima del commercio si sia definitivamente trasformata nel commercio dell’anima?