Cose che si pensano quando passa un’ambulanza

Cose che si pensano quando passa un’ambulanza

Di solito, quando succede trovi sempre il simpaticone che ti dice: “Sono venuti a prenderti”. E vabbé. Dice: si fa per scherzare. Sì, insomma, per esorcizzare una strana sensazione. Perché, è strano, ma pur essendo oramai diversi miliardi nel mondo, quando un’ambulanza ci sfreccia vicino, chissà perché, dobbiamo subito metterci al lavoro per scacciare dalla testa l’idea che la cosa ci riguardi. Sì, insomma, il pensiero che in quell’automezzo bianco ci sia un nostro parente stretto, un amico o un conoscente. Qualche minuto, qualche calcolo logistico, magari un sms, una telefonatina, ci rimettiamo tranquilli e smettiamo di indossare quell’aria vagamente dubbioso-spaventata che improvvisamente ci ha offuscato il volto, mentre percorrevamo frettolosamente la pubblica via, all’inseguimento dell’ennesimo impegno, di un affare, di un lavoro, di un amore.

Quando senti passare un’ambulanza ti indigni, perché, nonostante sia subitamente appurata la tua estraneità all’emergenza, senti che quella sirena sta violando in qualche modo la tua sacrosanta privacy. Sì, perché se sei un dipendente pubblico e in ufficio stai cercando sette mesi prima le offerte per qualche vacanzona all inclusive in qualche bettola di Caorle o di Igea Marina, cosa si mette a rompere quest’ambulanza con i suoi presagi di sventura? Hai ben ragione ad arrabbiarti!

Quando senti passare un’ambulanza ti fermi a pensare, ecco qual è il problema. Tutto qui. A pensare al tuo destino. Ai dieci, cento, mille potenziali pericoli che ti sfrecciano accanto ogni santo giorno e nemmeno te ne accorgi. Quel suono che prima cresce e poi, quando il mezzo si sta allontanando, decresce di frequenza, contravvenendo a tutte le regole imposte dall’ipocrisia sociale e dal bon ton, ci porta con prepotenza alla mente la fragilità e la precarietà di questo nostro vivere. Fa traballare la finta sicurezza con la quale ogni giorno ci mostriamo, agli altri e a noi stessi, padroni delle situazioni, sicuri di avere il pieno controllo della nostra esistenza e della nostra serenità. E invece, quando senti passare l’ambulanza, t’incupisci perché comprendi di non averlo quel controllo. Di averne magari sempre millantato il possesso, ma di non averlo mai avuto veramente. E se nemmeno oggi ti è accaduto alcun disastro, danno o incidente è solo per una curiosa casualità fatta di cellule, neuroni e traffico stradale.
Sì dai, è proprio così: quando senti passare un’ambulanza è un po’ come incontrare il fraticello che in “Non ci resta che piangere” ricorda a Troisi la sua caducità umana e lui, preoccupato di ricordarsene, corre immediatamente a prenderne nota.

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