È stato scritto molto su “Sanpa. Ombre e luci di San Patrignano”, la docuserie realizzata da Netflix che racconta “le luci e le tenebre” dietro la comunità sorta nel 1978, sulla celebre collina a due passi da Rimini e sul suo fondatore, Vincenzo Muccioli. Il lavoro – molto ben confezionato, scritto da Carlo Gabardini, Gianluca Neri e Paolo Bernardelli, per la regia di Cosima Spender – ripercorre le vicende della comunità di recupero fin dagli albori. In quella fine degli anni Settanta che segna il passaggio da moti rivoluzionari e sovversivi politici alla quiete e all’estasi dell’eroina. I giovani cominciano a morirne e lo Stato si ritrova – come spesso accade anche oggi per i problemi legati ai ragazzi – impotente. Le cinque puntate sviscerano la personalità di Muccioli, quasi un’indagine psicologica dettagliata. Tante le testimonianze di ex appartenenti alla comunità, giudici, giornalisti che narrano i metodi usati nella comunità. Testimonianze, a dire di alcuni, forse un po’ troppo di parte, ma a cui va assegnato il merito di aver contribuito a riaprire un importante dibattito. Ma non è di questo che voglio scrivere.
Vorrei solo puntare un momento i riflettori della discussione su coloro che nessuno, mi pare, nessun articolo, nessuna testimonianza, né tanto meno (salvo qualche attimo, di striscio) la docuserie, hanno pensato di chiamare in causa. Eppure ne avrebbero avuto ogni diritto. Più di molti altri. Più di chi ha sciorinato davanti alle telecamere per lunghi minuti la tragedia della propria gioventù quasi in posa da reduce. Più di chi ha fatto della confidenza di Muccioli un punto d’onore e di coloro che invece hanno espresso scetticismo, quando non critiche. Più di quelli che pensando di collaborare alla documentazione di un atto di definitiva giustizia si sono messi inconsapevolmente a nudo in tutta la propria ambiguità, a tratti con un velato compiacimento.
Vorrei invece parlare di un convitato di pietra.
Mi riferisco ai genitori. Sì. Proprio loro. I padri, ma soprattutto le madri, di chi cioè sotto il treno degli stupefacenti ci è finito assieme al figlio o alla figlia e che al contrario di questi non ha potuto lasciarsi dilaniare sulle rotaie, non ha avuto la consolazione dell’estasi, dell’incoscienza e dell’abbandono. Al contrario ha dovuto continuare a tenere la schiena dritta, la dignità in battaglia, in una vita che – nonostante un figlio a Sanpa – continuava a scorrere imperterrita e ostinata. Le madri che hanno dovuto giocoforza mettere da parte il proprio dolore per amore di altri figli. La madri che non hanno potuto abbandonarsi alla disperazione perché c’erano un mutuo da pagare, un’altra malattia in famiglia, un vecchio da accudire, i vicini che mormorano.
Nessuno parla delle madri di San Patrignano. Le abbiamo intraviste, sì, di sfuggita, nelle immagini girate davanti al Tribunale, o al momento della sentenza, ma nessuno ha pensato di farci sentire la loro voce, né ieri né oggi. Perché?! Certo il dolore, quello vero, non è fotogenico, lo sappiamo. La storia di Muccioli e della sua contorta personalità, il suo carisma, i misteri sulle morti e sulle presunte torture sono tutte cose molto più cinematografiche, che ben si confanno a una serie tv di successo.
Le madri di Sanpa invece sono rimaste nell’ombra, ancora una volta. Lo sono state allora – esistenze dilaniate da un morbo oscuro – e lo sono rimaste nuovamente oggi. Donne forti che hanno vissuto gli anni della Seconda guerra, il duro periodo della ricostruzione. Donne che hanno contribuito alla rinascita del Paese, che quasi sempre hanno deciso di sacrificare aspirazioni e desideri in nome della famiglia, pilastro cattolico-democristiano di cui possiamo dire tutto il male che vogliamo, ma che ha contribuito a traghettare l’Italia dai disastri bellici all’edonismo degli anni Ottanta, e ancora più avanti.
È un vero atto di dolore, il loro. “Atto di dolore”: è il titolo di una preghiera, ma anche di un film. Lo ha girato Pasquale Squitieri nel 1991. Claudia Cardinale è Elena, una giovane vedova che deve crescere da sola i due figli, Martina e Sandro. La vita certo già non facile le viene stravolta quando scopre che Sandro è vittima della droga. Il ragazzo nonostante i tentativi della madre non riesce a uscire dalla dipendenza ed Elena, dopo aver subito un’ulteriore aggressione da parte sua, decide di ucciderlo. (Quale livello di intensità può raggiungere la disperazione di una madre di fronte al baratro della dipendenza?) Commovente la scena in cui Elena chiude a chiave Sandro in una stanza. Lo sta facendo per il suo bene. Lo ha imprigionato per la sua salvezza, ma non basterà.
Ecco un’altra cosa che non è stata detta: San Patrignano spesso era ed è il piano “B”, il piano “C”, quando non addirittura l’extrema ratio oltre la quale c’è solamente la resa. Perché la prima comunità in cui si tenta di recuperare il tossicodipendente è la famiglia. Possono essere tentativi studiati e strutturati oppure appena accennati, lunghi mesi o solo poche ore, ma è lì, tra le mura domestiche, sotto lo sguardo disperato ma fermo di mamma e papà che si fa il primo passo. Solo dopo vengono la collina, Muccioli o le altre comunità di recupero.
Ripenso dunque alle poche sequenze che la docuserie di Netflix ha dedicato a queste madri. La fila di automobili ferme da giorni davanti ai cancelli di “Sanpa”; notti passate all’addiaccio nella speranza che Vincenzo accogliesse il sangue del proprio sangue. Le madri gementi e piangenti nell’aula del Tribunale che a ben guardare hanno i volti delle donne affrescate da Giotto nella cappella degli Scrovegni di Padova, mentre assistono all’ordine di Erode di massacrare i bambini. Piangono quelle madri non perché Muccioli sia stato condannato, e nemmeno per le conseguenze che la sentenza potrà avere rispetto al destino del figlio o della figlia. Piangono e urlano contro il destino, il proprio, adesso. Mostrano i pugni alla realtà bastarda che è toccata loro in sorte e al mondo tutt’attorno che, anche 40 anni dopo, continua ad ignorare il loro immenso dolore.