Il terzo libro di Daniele Mencarelli è in realtà il primo. Non siamo ancora nei reparti psichiatrici nei primi due romanzi, bensì nel reparto psichiatrico a cielo aperto, il più grande che ci sia: l’esistenza. Dove stiano veramente i pazzi – all’aperto o al chiuso – non si è ancora riuscito ad appurarlo con certezza.
Fatto sta che la freccia del tempo si è invertita e in “Sempre tornare” (Mondadori, pag. 322, € 19) andiamo a scoprire cosa è accaduto “prima”, dove cioè si è originato il coacervo di desiderio e necessità di senso che è un po’ la cifra di questo straordinario autore. Uno che, per capirci, ama calpestare i territori minati dell’insoddisfazione e del dolore perché sa che da lì, e solo attraverso essi, si deve passare per approdare ad una salvezza. Nel romanzo troviamo una storia vera, forse, ma pure un caleidoscopio di umanità e di simboli, perché il viaggio a piedi che Daniele intraprende, partendo da una squallida discoteca sull’Adriatico con destinazione casa a Roma, è pura espiazione, non solo per sé, ma anche per chi lo incontra. Perché la sua è una presenza che “cambia”; il suo sguardo ti sa inquadrare per quello che sei veramente; senza alcun pregiudizio costui prende a cuore il tuo destino e lo ama. Non ci si pensa quasi mai: quel che si aggiunge alle vite negli altri quando ci si avvicina a loro.Una ricerca di verità che però passa attraverso la concretezza della vita, i problemi pratici, perfino quelli fisiologici, ma anche attraverso le vibrazioni buone dell’amore; per una donna, per la Natura, ma tanto che differenza fa?
Siamo nell’agosto del 1991, e Daniele ha diciassette anni, nemmeno un soldo in tasca, soffre la fame e il freddo, inizia il cammino “affidandosi” al proprio destino. L’impresa è ardua eppure non mostra cedimenti, come se facesse affidamento in ogni momento ad una speranza superiore, un amico invisibile che gli cammina a fianco e che riporta con prepotenza ai versi di Eliot (“Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto? / Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme / Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca / C’è sempre un altro che ti cammina accanto”).
Daniele è solo un ragazzo, ma ha la forza di caricarsi del dolore degli altri, di digerirlo, di farne carburante per alimentare la bellezza, ovvero la poesia, elemento che nella narrazione continua a saltare fuori, dando spallate al tradizionale e consolante incedere narrativo, esplodendo con lampi che accecano, costringendo talvolta a interrompere la lettura e – chissà perché – a portare gli occhi al cielo. La bellezza è una promessa di verità, senza dubbio. Le bellezza è insondabile e ha qualcosa a che fare con i sensi e con la luce del sole, con la vista e l’udito e con i fotoni, quanti di energia della radiazione elettromagnetica. Ma che ne può sapere Daniele di certi concetti? Quello che sa con certezza è che ha intrapreso quel viaggio picaresco e assurdo perché deve “capire” e non può più far finta di niente. “Non è colpa mia – confessa come in una sorta di avvertenza iniziale del libro – se vedo ovunque una discendenza da scoprire, ovunque un enigma che chiede a me di essere risolto, come se fosse possibile”.È un viaggio di cui conosciamo – chi ha letto i primi due romanzi lo sa – l’epilogo, eppure avvince perché ricorda così tanto il viaggio che ognuno si trova a compiere sotto il cielo: la vita. Un punto di partenza sbagliato, sconosciuto, un approdo conosciuto e accogliente; non sono ammesse scorciatoie o sotterfugi; occorre sempre tenere gli occhi aperti. La bellezza potrebbe sbucare all’improvviso, da un cespuglio, da due occhi azzurri, da una preghiera, da un’opera d’arte. Da un momento all’altro.