Asfaltatori asfaltati dalla menzogna

Asfaltatori asfaltati dalla menzogna

Perché il nostro paese ha la memoria così corta? 
La foto che vedete accanto alla copertina del libro è mia. Dovrebbe essere del 1935 o giù di lì. Siamo da qualche parte della neonata colonia battezzata “Libia”. Riconoscibili, Italo Balbo e, dietro – se non vado errato –, Edda Mussolini e Galeazzo Ciano che escono da una costruzione tipica. Ad attenderli, un gruppo di impacciati abitanti del luogo, alcuni vestiti all’occidentale, altri avvolti in tuniche, uno allampanato alza il braccio, dubbioso, non sapendo se sta facendo bene o male a esibire maldestramente il saluto fascista.
Se avrete la pazienza di leggere le poche righe di questa simil-recensione scoprirete come ne sono venuto in possesso e perché la pubblico proprio qui. 

Chi dice di non voler conoscere la verità di solito sostiene di avere le sue buone ragioni. Peccato che in questo modo si renda complice della falsificazione di quella stessa verità. Con il suo instancabile, coerente e certosino lavoro di ricerca, questi volontari dell’ignoranza Francesco Filippi li sta stanando tutti, uno per uno. Il suo (e quello del lungimirante editore) non è un mero pubblicare libri di ricerca, bensì un farci mettere – come italiani – una mano sul cuore. Scomoda la verità, ambigua, e se ignorata o messa abilmente da parte ecco che si trasforma in bugia. La reticenza non è mai una qualità.

Non sarà appropriato, forse, ma mi piace sostenere che in “Noi però gli abbiamo fatto le strade” (Bollati Boringhieri, pag. 200, Euro 12) Filippi edipicamente ci permette finalmente di uccidere i nostri padri, nonni e bisnonni. Avi scomodi, possessivi, abbrutiti dalla smania del possesso, che da un secolo e più ci fanno ombra e ci impediscono di crescere e, quindi, di maturare. Ci permette cioè di affrancarci dal peso del silenzio, di frantumare questo enorme muro di cose non dette, legate a quanto nel corso dell’ultimo secolo l’Italia ha avuto a che fare con questa sorta di costosi e crudeli giocattoli chiamati “colonie”.

Perché qui non ci troviamo di fronte ad saggio sul colonialismo italiano, ma al tentativo (riuscito) di “individuare la traccia, nascosta ma persistente, dell’impatto che questa dominazione ha avuto sul Paese, sui suoi abitanti e sulla loro mentalità”. Non per niente il razzismo è da sempre ansia di catalogazione, metodo primitivo per proteggersi dallo sgomento di essere circondati da vite inconoscibili. Così come inconoscibili erano gli italiani che per decenni continuavano a sbarcare laggiù, calcando il suolo sabbioso di Eritrea, Cirenaica, Tripolitania, Somalia, avanzando diritti acquisiti in virtù di una fantasiosa – ma sempre di moda – supremazia della razza.

E chissà perché – arrivati a questo punto – la tentazione del lettore è quella di svicolare, di affermare candidamente che oggi abbiamo altro a cui pensare. Gli italiani “brava gente” – quelli dell’iprite, degli stermini, della sopraffazione, i prodi agli ordini del Generale Graziani – noi non li conosciamo mica, sa?! Appartengono ad un mondo che non esiste più. Preistoria delle preistorie. Noi dell’Europa Unita, degli smartphones e di Amazon non abbiamo nulla a che fare con certa gentaglia. 
E invece, in un certo modo, questa storia maledetta ci riguarda tutti.

Ciò nondimeno è curioso, stimolante e quasi medianico il fatto che questo libro sia uscito in concomitanza di due eventi drammatici, uno collettivo e uno privato. Il primo è il collasso economico e sociale dell’Afghanistan seguìto alla riscossa dei Talebani. Il secondo, la scomparsa di Angelo Del Boca (1925-2021), pioniere degli studi sul colonialismo italiano. Si fa fatica così a non guardare ancora con più rispetto e reverenza questo libro, portatore di un testimone pesante, ma che è importante condurre al traguardo sulla pista della verità storica. 
Ed è innegabile che Francesco Filippi ci sta abituando bene, ci sta viziando, proprio. Dopo i due volumi sul fascismo e sull’essere fascisti, ci serve una nuova succulenta portata, che ci fa bene, ma al contempo ci fa male. Come italiani e come figli. Sì, perché l’ironia di quella frase (“Noi però gli abbiamo fatto le strade”), ammesso e non concesso che tutti la colgano…, resta l’emblema di un potere autoassolutorio che da queste parti conosciamo molto bene. Abbiamo asfaltato le strade, è vero, ma siamo rimasti asfaltati dalla menzogna. Chissà perché, qualsiasi nefandezza mettiamo in atto, c’è sempre pronto un motivo, celato, criptico, nascosto grazie al quale possiamo scrollarci di dosso l’eventuale rimorso.
Ecco perché il nostro paese ha la memoria così corta.

Infine, la fotografia.
Nel 2004, al momento della sua morte, in casa di mia nonna Caterina (1915) ho trovato una serie di fotografie, raccolte in una vecchia scatola di biscotti Plasmon. Ritraevano uomini in divisa, automezzi, alcune portavano la data: ad esempio, “Africa 1942”. C’era perfino uno scatto che ritraeva una giovane somala con un neonato in braccio: il figliastro di mia nonna.
A quanto pare le aveva scattate tutte mio nonno Giuseppe (1915-1977), tra il 1935 e il 1943. 
Ve l’avevo detto che questa maledetta storia ci riguarda tutti, o no?!