I due rivali

I due rivali

Quella sera il XXI secolo entrò nella Taverna del Tempo Perduto e ordinò il suo solito Negroni. Al banco si ritrovò gomito a gomito con due habitué di quel luogo. Alla sua sinistra, sempre alle prese con le consuete recriminazioni legate a quella che amava definire la “disgrazia”, il Cinquecento già mezzo ubriaco, declamava a gran voce, col piglio del banditore, l’elenco dei disastri che a suo dire l’arrivo degli europei nelle Americhe aveva a suo tempo provocato: l’annichilimento di un popolo di gigantesca statura morale e culturale, l’asservimento dei superstiti, la creazione di un mito fondato su valori tanto moralistici quanto artefatti.

A destra, sul lato cioè che dava verso l’entrata, mezzo addormentato, abbandonato sul legno scuro del bancone come un cuscino, il Neolitico farfugliava quasi tra sé litanie legate all’avvento dell’agricoltura, su come era stato in grado di produrre la distinzione delle gerarchie sociali e la distruzione dell’ambiente. Da lì – secondo lui – erano arrivate le più grosse seccature dell’umanità: le discriminazioni sessuali, le caste sacerdotali, le dinastie di sovrani. 

È sempre così, stava pensando il XXI secolo, l’uomo nasce buono e la società presto o tardi lo porta alla perversione. Non lo avrebbe mai ammesso pubblicamente, ma in quanto ultimo in ordine cronologico, più piccino diciamo, si considerava un gradino più in alto di tutti i derelitti che ogni sera affollavano la Taverna. Gli altri avevano avuto la clava e l’astrolabio, lui la velocità e l’efficienza del web, un telefono in tasca in grado di metterti in comunicazione con il mondo intero in qualsiasi istante. E che dire poi dell’esplorazione del Cosmo? Dei progressi della fisica, delle neuroscienze? Si guardava bene dal vantarsene, ma il giovane Duemila si sentiva una sorta di eletto, un essere soprannaturale in mezzo a quei dinosauri; il secolo in cui il genere umano, più che in ogni altro momento della storia del mondo, si sarebbe avvicinato a cogliere il senso del Tutto, forse addirittura a intravedere lo sguardo di Dio.

“Il fatto è” riprese in quel momento il Cinquecento, “che senza quella maledetta disgrazia avrei potuto sviluppare una doppia linea di civiltà, ognuna con una sua autonomia. La concorrenza ha sempre fatto bene allo sviluppo”. Il XXI secolo lo osservò con una misurata superiorità, ma con furbizia, senza scadere nell’altezzosità o nello sprezzo palese. Il ‘500 non aveva tutti i torti, doveva ammetterlo. Tuttavia il suo amor proprio lo portava a viaggiare a ben altre altezze rispetto alle vicende di popoli rozzi e primitivi che per dirimere le controversie sapevano usare solo la sopraffazione. Il suo tempo aveva portato la comunicazione e, grazie ad essa, la concordia, che si concretizzava in lunghissimi periodi di assenza di grandi conflitti. A volte doveva confessarlo, quanto meno a se stesso, che non gli sarebbe dispiaciuto per niente che tutti quei meriti gli venissero riconosciuti. Sì, riteneva di meritare quanto meno un ringraziamento ufficiale da parte di tutti gli altri secoli e millenni passati.

“Me ne vado a dormire”, biascicò il Neolitico, pagando la lunghissima teoria di ordinazioni della serata. Lo attendeva il solito rilassante viaggio onirico in cui poteva rivivere il suo tempo andato. Vaste praterie e steppe desertiche, sterminate foreste in cui miliardi di organismi viventi interagivano costituendo un sistema autosufficiente, in costante equilibrio dinamico anche con una sparuta fauna. Un miracoloso inconscio collettivo che solo la cinica e arrogante coscienza umana avrebbe presto provveduto a sfaldare.

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 Il XXI secolo si girò verso il Cinquecento. Sarebbe stato interessante metterlo a parte di tali riflessioni. La sua “disgrazia” in fondo era stata la causa dell’ultimo grande sfaldamento della Storia, con la lenta e inesorabile contaminazione di un continente fino a quel momento vergine e scevro da ogni prodromo della follia umana.

Tuttavia non fece a tempo ad aprire bocca perché in quel momento, con la malagrazia che lo aveva reso celebre in Taverna, distribuendo epiteti di dubbia classe a destra e a manca, il ‘900 andò ad occupare la seggiola lasciata libera proprio dal Neolitico.

Il Duemila non si scompose più di tanto. Come tutti, era ormai abituato alle entrate teatrali di quello sbruffone. Timeo, il vecchissimo barista, sbuffò preparando il cocktail preferito dall’energumeno – un white russian – ricordando con estremo fastidio la baraonda sorta l’ultima volta che quei due balordi si erano ritrovati fianco a fianco al bancone della sua taverna. Quando due esseri tanto pieni di sé si confrontano è come mettere una scimmia davanti ad uno specchio, uno diventa la proiezione dell’altro, eppure tutti e due continuano ad avere la presunzione di essere reali e non un semplice riflesso.

Sì, Timeo lo ricordava bene, l’ultima volta si erano accapigliati su molte questioni. Sull’arte, ad esempio. Così, di punto in bianco, il Novecento aveva invitato il suo successore a contare il numero dei propri poeti, degli artisti, tutta quella musica fantastica mai sentita prima. Un colpo basso, non c’è che dire. Nella sua breve esistenza, il Duemila non aveva prodotto che imitazioni in quel campo, o astute rielaborazioni che, con la scusa dell’approccio sperimentale, altro non facevano che copiare qualcosa di esistente e rivenderlo come nuovo.

Quella sera, il XXI secolo colse al volo l’opportunità di ritrovarsi al fianco quel rivale, per provare a ribattere. 

“Senti un po’, egocentrico che non sei altro, ma tu veramente credi di essere stato tanto rivoluzionario? Te lo sei scordato l’Ottocento? E il Rinascimento? E l’arte antica? Sei solo un millantatore!”

“È il tuo complesso di inferiorità a parlare – sbraitò il ‘900 – e l’ultima volta sono stato magnanimo con te. Ho evitato di umiliarti ricordandoti che io ho avuto cosette come la radio e la televisione. Sono stato il primo, capisci?! E i progressi della medicina? Della fisica? Mai sentito parlare di un certo Albert Einstein?! Sai cosa ti dico, pivello, che voglio proprio vedere cosa sarai capace di fare tu, che hai già buttato via vent’anni solo per guardarti attorno, per cercare di capire dove ti trovi”.

Il XXI secolo sorrise sarcastico. Già aveva capito dove quell’altro voleva andare a parare, così decise di abbandonare ogni ritegno e di affondare i colpi.

“Ascolta, idiota! Non starò qui nemmeno un altro minuto ad ascoltare le tue chiacchiere. Ti fa comodo parlare dell’arte, vero? Ma un secolo è molto di più: un secolo è anche fatti, pensieri, umanità”.

“Ecco, il filosofo che attacca – ridacchiò il ‘900, mandando giù un altro sorso del suo cocktail – non sei capace di stare sulla concretezza tu, vero? Sei allergico alla realtà”.

Il XXI secolo di voltò di scatto, imbestialito. Era furente. Pronto a scaricare addosso allo scomodo avventore tutta una serie di contumelie.

“Tu, carogna, proprio tu, che mi hai passato il mondo vent’anni fa, l’hai fatto come mi stessi facendo un regalo, come se avessi dovuto ringraziarti, genuflettermi… Perché continui a tacere dell’odio, del veleno, della follia umana che mi hai ceduto mascherandoli da progresso?! Lo sanno tutti qui: tu sei stato il peggiore, altro che! Con le guerre, tutte quelle camicie nere, brune, le bandiere rosse, i carri armati alle frontiere, la grande menzogna dell’economia e dello sviluppo.”

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 Erano vicinissimi, ora. Le punte dei loro nasi quasi si toccavano. Il ‘900 aveva preso l’altro per la giacca e lo aveva tirato a sé. Si guardavano scuri in volto come due bestie pronte ad azzannarsi.

“Vediamo di non provocare guai!”, suggerì bonariamente Timeo. “E tu, imbecille, sì dico a te amico, vattene subito a casa, hai bevuto abbastanza per stasera.

Il ‘900 si alzò, tenendo le mani in alto, sprimacciandosi la giacca e i pantaloni.

“Ok, disse, me ne vado. Va bene… Ma prima – dico a te, giovincello di belle speranze – lascia che ti dica un’ultima cosa. Ottant’anni sono molti per gli umani, ma per noi – tu lo sai – sono un giorno o poco più. Ebbene, facciamo una cosa: tra 80 anni, ovvero domani, ti invito a ritrovarci qui, proprio su queste due seggiole. Verrai a dirmi, allora, cosa hai fatto di meglio, come lo hai usato il tempo che l’Universo ti ha messo a disposizione. Sono davvero curioso. Mi racconterai per filo e per segno della tua arte, dei progressi della tua scienza, delle meraviglie del tuo internet, ma dopo però – bada bene – dovrai anche dirmi qualcosa dell’uomo. E riguardo l’amore. Ecco, solo questo mi interessa: dovrai venire qui a raccontarmi per filo e per segno cosa ne avrai fatto dell’uomo e che ne sarà stato dell’amore, di tutto l’amore che c’era nel mondo”.

Accompagnato da un mormorio e qualche fischio, nel sollievo generale, il ‘900 uscì dalla Taverna del Tempo Perduto.

Seguirono alcuni istanti di silenzio. Solo il tintinnare dei bicchieri, e alcuni colpi di tosse in fondo alla sala.

Il XXI secolo adesso era immobile. “Tutto ok?” gli chiese Timeo. Ma quegli non rispose. Se ne stava col capo chino a fissare quel che restava del suo Negroni. Seminascosta dai lunghissimi capelli, qualcosa di simile ad una lacrima gli stava attraversando lentamente il volto.

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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.