“Spatriati”: una recensione maledetta

“Spatriati”: una recensione maledetta

Ma se nel recensire un libro ci si accorge che lo stesso non incontra i nostri favori è lecito scrivere delle negatività rinvenute o è meglio lasciar perdere e far finta di non aver nulla da dire a proposito? Un applauso non lo si nega a nessuno, è vero, specie in Italia, dove recensire è diventato una sorta di voto di scambio del mondo editoriale. Tuttavia vi sono casi in cui non si può proprio applaudire. Né tanto meno tacere. Mi perdoni l’autore, mi perdonino gli editori, ma qui – facendone soprattutto una questione di appartenenza etnica – voglio anzitutto denunciare, e penso di averne diritto, l’uso improprio e strumentale della mia terra: la Puglia.

Il libro è in questione e “Spatriati” di Mario Desiati (Einaudi, pag. 260, Euro 20). Ho finito di leggerlo a tarda sera, l’ho chiuso, l’ho appoggiato sul comodino e ho spento la luce, imponendomi il sonno. Forzandomi a dimenticare il risentimento che avevo sentito poco prima crescere dentro, pagina dopo pagina. 
Dopo venti minuti ho dovuto riaccendere l’abat-jour e, pian pianino, ho cominciato a scrivere queste righe maledette.


Sono cose che succedono. Certo. Specie quando rimandi troppo a lungo la lettura di un libro che per svariate ragioni supponi possa starti a cuore. Le gigantesche aspettative personali vengono corroborate da commenti entusiastici letti qua e là. Ma bastava il titolo da solo: “Spatriati”. Cristo!, mi dicevo, questo libro parla anche di me!
Ed invece…

Delusione, delusione, delusione. E mi piange il cuore a scriverlo così, nero su bianco, ma sono troppo incazzato per esimermi dal farlo.
Mi ero immaginato una storia di un certo tipo, con sullo sfondo una Puglia credibile, aspra e crudele, infida e bellissima come una vestale, pronta ad uccidere, subito dopo averti preso il cuore. Avevo immaginato tutto di questo libro. Volete sapere come è andata a finire? Che non ne ho azzeccata manco una.


Una storia tiepida, tremendamente adolescenziale (potete credermi o meno, mi sbaglierò clamorosamente, ma per me è poco distante da Volo, Moccia e “Notte prima degli esami”), così poco letteraria, incomprensibilmente intercalata da fastidiose citazioni didascaliche, fatte di dischi, libri, reminiscenze scolastiche e altre memorabilia degli anni Novanta del Novecento. Un elenco stucchevole che ogni volta mi dava la sensazione di essere anziché in un romanzo in uno degli insopportabili show nostalgici di Carlo Conti,


No, non è la mia Puglia quella che c’è lì dentro. Non la riconosco. E non riconosco nemmeno il nord (e l’estero) di noi “spatriati”. Lasciare la propria terra non è uno scherzo, non è una goliardata, una cosa “figa”. Delle volte può essere definitivo come la morte. Dov’è l’angoscia in questo libro? Dov’è lo smarrimento? Dov’è la lacerazione? Dov’è la vita?!
Va bene, va bene, ho capito, insultatemi pure. La chiudo qui, non prima però di essermi domandato quanto dobbiamo ringraziare l’autore per questo infelice pot-pourri e quanto i suoi editor e perfino l’art director (cfr. la foto di copertina), che forse di Puglia e di questioni migratorie conoscono troppo poco.

Ah, un’ultimissima cosa. Quello che vorrei tanto sapere è se l’autore l’aveva pensato esattamente così il libro o se invece sia dovuto venire a compromessi, piegandosi agli usi, alle furberie, al manierismo di quella macchina infernale – una sorta di Bimby in cui introdurre ingredienti prestabiliti – che sta diventando il “mercato editoriale”.

Finito!
Mi sento già meglio.