Detestabile, odioso, amatissimo Karl Ove

Detestabile, odioso, amatissimo Karl Ove

Lo scrive lui stesso, attorno a pagina cinquecento, che viviamo in un mondo di finzione nella finzione. Pensiamo alla realtà virtuale offerta dai social network. Pensiamo a quante ore passiamo con lo sguardo ficcato nello schermo di un telefono. Che senso ha dunque, per uno scrittore, produrre nuova “finzione”? Una domanda legittima a cui lui ha risposto con 3500 pagine, suddivise in sei volumi. L’ultimo si intitola paradigmaticamente “Fine” (Feltrinelli).

Karl Ove Knausgård lo si può solo amare o odiare. Non lo si tollera, non lo si sopporta, non si può dire di un suo libro che “è carino”. O quello che scrive è un capolavoro oppure è una schifezza immonda.
Ci siamo perdutamente innamorati di questa sua scrittura, sincera e tagliente. Questo suo mettersi a nudo che ha qualcosa di simbolista e di profondamente ingenuo. Un caso unico nella storia della letteratura che difficilmente potrà ripetersi. Così come non si ripetono certe amicizie o certi innamoramenti selvaggi, profondi come il mare.

È stato un viaggio. Un immobile girovagare tra le foreste norvegesi, in semestri di buio, tra fiordi inaccessibili e fiumi di alcol e sigarette e dischi meravigliosi. E ancora arte, dipinti sconosciuti, lavastoviglie, routine famigliare, tanta tenerezza, ma pure veleno.

Un viaggio talmente bello che non l’hai ancora terminato e già stai pensando di ripartire. Un immersione nella realtà, nella vita di un tizio che si è preso la briga di raccontarcela per filo e per segno. Senza pose da intellettuale. Ammettendo di continuo le proprie debolezze. L’umile offerta del rude norvegese, ammalato di sincerità. Una finzione nella finzione che avremmo voluto non finisse mai.