Un solenoide contro la cospirazione della normalità

Un solenoide contro la cospirazione della normalità

Trenta minuti. Sì, è una mezz’ora buona che sono qui davanti allo schermo bianco del computer, alla ricerca dell’attacco giusto, l’incipit più sensato per cominciare a parlare non tanto di come mi è parso e cosa vi ho colto, bensì di quanto questo libro “mi ha fatto”. Sì, è molto difficile e complicato parlarne. Almeno quanto soccorrere un plurifratturato nei momenti successivi a un disastroso incidente d’auto. È risaputo: muovere il corpo nella maniera errata può scatenare un dissanguamento interno, la perforazione di un organo vitale, quindi portare rapidamente alla morte. Ecco, potrei partire proprio da qui. Dallo stridente paradosso che ne deriva: il soccorso che porta alla morte. Prestare cura a qualcuno equivale ad ucciderlo. Dunque vi è il germe di una salvezza nell’abbandonare questo mondo?!

A proposito: di quale mondo stiamo parlando? Di quale libro che racconta di quale mondo? E in che modo? Perché in “Solenoide” (Il Saggiatore, pag. 937, Euro 29), Mircea Cărtărescu argomenta attorno a mondi infiniti che si succedono, e dei quali conserviamo un oscuro e appena percettibile, eterno ricordo, che ci appare come un fantasma nei sogni o in stasi percettive che talvolta ci fanno sobbalzare. (“Dovremmo avere un organo di senso che distinguesse tra segno e coincidenza”). La mole di stratificazioni narrative, di citazioni, di argomenti scientifici, di riflessioni metafisiche ubriaca il lettore di “Solenoide” che, se predisposto, può comprendere finalmente cosa voleva dire veramente Ludwig Wittgenstein quando scrisse che “non c’è nulla di mistico al mondo. Mistico è solo il fatto che il mondo esista”. 
Un buon inizio potrebbe essere quello di smetterla con la sopravvalutazione del senso del senso della vista. È il pensiero il vero occhio che possiamo ficcare nella realtà. Quale realtà? “Questo è vero, questo non è vero. Scegliamo cioè da una babele di possibilità, probabilità, irrealtà, stranezze un’unica struttura che chiamiamo realtà e su cui ci basiamo per poter vivere”.

Perdippiù, parlando di “Solenoide”, non ha alcun senso accennare ad una “storia”, né tanto meno ipotizzare una “trama”. Il romanzo non è quel genere di romanzi dove qualcuno descrive, ama, uccide, gode, dice. Il protagonista – un professore di scuola media, nella Bucarest degli anni Ottanta, che fin da piccino si considera un “predestinato” – lo confessa amabilmente. La critica letteraria gli ha fatto un enorme regalo rigettando il suo poema, intitolato “La Caduta”. Gli ha garantito, cioè, almeno due ordini di privilegi. Gli ha risparmiato la vita raminga e vuota dello scrittore perennemente in classifica, costretto a sfornare titoli a comando, sballottato tra festival e premi letterari, in cui viene forzato a recitare la parte del saccente, con lo spessore morale del bimbo che recita la poesia davanti ai nonni, in piedi sulla sedia, la sera di Natale. Secondo privilegio: gli ha consentito di scoprire come la letteratura non abbia nessuna importanza. “Il mondo si è riempito di milioni di romanzi che eludono l’unica ragione di essere che la scrittura abbia mai avuto: quella di comprendere te stesso fino in fondo…”. Insomma, la letteratura è solo uno dei moltissimi strumenti a disposizione del linguaggio al fine di indagare il mistero e di trasmettere al prossimo i risultati delle indagini stesse, mirate naturalmente a districare “l’inestricabile nodo gordiano che riempie la camera proibita del nostro cranio”.

Cărtărescu ci sollecita dunque ad evadere dal reale, così come Cristina Campo ci metteva in guardia rispetto a quella che lei definiva l’onnipotenza del visibile. Sì, ma come fare in definitiva? Contro chi protestare? Contro cosa manifestare? Ecco, questo sì che è strano. In molti, da secoli, in ogni parte del mondo, sono pronti a scendere in piazza per urlare contro chiunque o nei confronti di ipotetici complotti orditi non si da bene dove e da chi, dittature di ogni tipo (non ultima, quella che è voluto definire “sanitaria”), ma mai nessuno ha osato scagliarsi contro l’assurdità della vita. “Perché mi è stato dato accesso allo spazio logico e alla struttura matematica del mondo? Solo per perderli quando il corpo mi si distrugge?” Accettare di morire senza aver mai provato a ribellarsi? Mai. A costo di apparire deliranti, come la folla urlante accalcata davanti all’obitorio di Bucarest, perché “il delirio non è una scoria della realtà, ma è parte di essa, e a volte la sua parte più preziosa”. E un generatore di campo antigravitazionale (il solenoide) non può che amplificare ogni sensazione o intuizione, donando il momentaneo sollievo di libertà dalla forza che ci ogni giorno ci schiaccia verso la terra.

Uomini alla stregua di cavie oggetto di esperimenti, infilate in cunicoli di plexiglass, che si muovono stimolate dall’odore dei pezzettini di formaggio posizionati ad arte. Uomini come acari, insetti di insetti, che ciechi e inconsapevoli strisciano sul derma o nell’ordito di una sudicia coperta. Oppure uomini come il prigioniero che elabora un piano di evasione decodificando nel buio della sua cella, mese dopo mese, anno dopo anno, un misterioso messaggio fatto di colpi, graffi, strofinii, che lui traduce e trascrive con altrettante semilune, ruote dentate, triangoli e croci, puntualmente incise sul muro.
“Conosciamo il mondo costruito dai sensi della nostra mente, ma il mondo com’è davvero, indescrivibile sia pure attraverso milioni di sensi aperti, è dappertutto attorno a noi e ci schiaccia osso dopo osso nel suo abbraccio”.

Una ragione in più per provare a decifrare il messaggio oltre il muro della cella. Magari tentando di visualizzare la proiezione di un cubo nella quarta dimensione, così come facilmente possiamo fare con quello stesso cubo rispetto al quadrato dello spazio a due dimensioni. Ed è con grande garbo che Cărtărescu ci prende per mano e ci porta a casa del teorico dell’ipercubo o “tesseratto”, Charles Howard Hinton curiosamente genero di George Boole, il fondatore della logica matematica. Di cosa sto parlando? Se si ha presente la crocifissione di Salvator Dalì, quella in cui Cristo se ne sta sofferente, inchiodato ad una croce ipercubica, se ne può dedurre che qualcuno ha già provato a visualizzare dimensioni superiori. Sono i geni, i visionari, i pazzi, i profeti del passato, le cui opere e le cui parole – proprio come le quattro forze fondamentali della natura – sembrano convergere verso un unico punto. Credo ci sia anche un po’ di Cărtărescu nel manipolo, adesso, contro ogni cospirazione della normalità.

Trenta minuti. Sì, è una mezz’ora buona che sono qui davanti alla schermata della recensione e non mi decido a considerarla conclusa. Conosco anche il motivo. “Solenoide” è un libro che non comincia e non finisce. “È” e basta. Un libro che può cambiare in un sol colpo la visione della realtà, ed un’idea di letteratura. No, non è un’esagerazione. Ma che si presti o meno fede all’umile e ignoto recensore, alla fine, “ciò che ci resta è l’ostinazione, che è sempre una forma di fede. Sappiamo che siamo in un labirinto, sappiamo che occorre evadere (…) e troveremo l’uscita, anche solo per fortuna o stupidità, poiché senza questa fiducia non potremmo più respirare”.
Continuiamo a cercare, allora. Ascoltiamo, decodifichiamo colpi, graffi, strofinii. E respiriamo. Respiriamo. Ancora. E ancora.