Nell’ultimo film di Paolo Sorrentino, “È stata la mano di Dio”, ho trovato uno tra i dialoghi più belli che abbia mai sentito in un lungometraggio. È quello che verso la fine intessono il protagonista, Fabietto, alter ego dell’autore, e il regista Antonio Capuano (uno dei maestri di Sorrentino). Un ragazzino rimasto improvvisamente orfano, che cerca una propria strada nella vita, con il dolore negli occhi, e un artista navigato che quella vita la conosce bene, assieme a tutti i suoi mille trabocchetti. Capuano legge la sofferenza sul volto di Fabietto, la percepisce nel vibrato delle sue parole disperate, così pronuncia la frase che è già diventata un piccolo cult per la storia del cinema italiano: “Non ti disunire, Fabio, non ti disunire mai”.
Un incitamento attinto dal gergo calcistico, che qui diventa monito filosofico ed esistenziale. Disunirsi vuol dire sospendere la propria dignità di fronte ad una realtà troppo complessa e ingombrante che delle volte pare davvero impossibile da sopportare.
Ma disunirsi sta ad indicare anche la perdita di un’unità dell’essere, della propria essenza, lo stare al mondo così come si è.
Disunirsi è appendere il buon senso all’attaccapanni e fingere di non averlo mai avuto. Ci si disunisce nel momento in cui l’evidenza perde ogni sua caratteristica di chiarezza e di immediatezza, tramutandosi in un’oscura nebulosa fatta di dubbi e di sospetti, di fronte alla quale l’isolamento appare l’unica soluzione logica.
Come scrive Ian Curtis in “Isolation”, siamo “rassegnati a prevenire / altri che pensano solo a sè / in una cecità che raggiunge la perfezione / ma fa male come ogni altra cosa”.
Un nuovo anno si apre, tra incognite note e speranze antiche che spingono per riaccendersi. Ascoltiamo anche noi l’invito di Antonio Capuano: non ci disuniamo! Non dimentichiamo il nostro ruolo, la responsabilità che ci tiene dritta la schiena, il compito che il Mistero dell’esistenza ci ha assegnato nel momento in cui nostra madre ci ha messi al mondo. Guardiamo avanti!