Memorie di un soccombente

Memorie di un soccombente

Ho atteso il canonico periodo di santificazione virtuale che va tanto di moda adesso (“Il più grande scrittore di sempre”, salvo poi dimenticarselo qualche settimana dopo, sostituito da un cadavere d’artista più fresco) per addentrarmi nella coscienza scritta di Vitaliano Trevisan (1961-2022), divorando le 700 pagine di “Works” (Einaudi) e la prima cosa che posso dire è che non so se fosse davvero “il più grande scrittore di sempre” – non conosco abbastanza la sua opera né la letteratura in generale per poterlo stabilire –, di certo era il più grande “onesto” di sempre, laddove per onestà non intendo il moralistico rispetto delle regole, ma l’attaccamento ad una coerenza di spirito quasi maniacale. Una dignità artistica lucida e grande che si è portato dietro per tutti i 61 anni della sua vita, senza sbandierarla, senza mai autocelebrarsi o scendere a compromessi con “il sistema”, l’intellettualismo marchettaro che oggi, montando montando, sta rendendo l’ambiente letterario sempre più simile ad una fogna molto ben arredata. Dunque voglio chiudere non un occhio ma due di fronte alla sospetta tempestività con cui la nuova edizione di “Works”, “ampliata” e adeguatamente provvista di fascetta, ha seguito il suo tragico suicidio. A riguardo, sospetto soprattutto una cosa: che lui non ne sarebbe stato felice.

E posso affermarlo con certezza perché sono proprio la mercificazione, lo sfruttamento, l’arrivismo, l’avidità, le correnti sotterranee di odio e di invidia, accanto all’ottusità di un sistema fiscale, alla cecità della burocrazia i temi del libro di cui sto provando a scrivere qualcosa. 

E faccio fatica a scriverne. 

Un po’ per la mole, per l’impressionante susseguirsi di esperienze lavorative (geometra, manovale, gelataio, magazziniere, lattoniere, ecc.) che Trevisan è riuscito ad infilare nel corso di qualche decennio, indossando le vesti ora dell’agrimensore K ora di un “soccombente” di Bernhardiana memoria. Un po’ per aver vissuto gli stessi anni, ed essere stato io stesso protagonista di diverse situazioni “worksiane”: dipendente, impiegato, apprendista, operaio, quasi sempre sfruttato, malpagato, irriso, circuito con cui mille promesse mai mantenute, tutto ciò soprattutto negli anni in cui la società dei consumi dava i suoi primi vagiti, inducendo bisogni e desideri, allorquando “si cominciava a parlare di qualità percepita che andava a sostituire quella reale ed effettiva. Si creavano marchi a cui si attribuiva arbitrariamente un valore imprescindibile”. 

“Works” è un racconto autobiografico, ma è pure la storia di un Paese, di una regione – il Veneto – quasi un emblema del lavoro inteso come ragione di vita, molto spesso mero strumento per potersi arricchire; lavoro che per il veneto Trevisan vede quasi come una condanna, al punto da domandarsi: “Perché trovo sempre un lavoro?, mi dicevo, Perché non mi lasciano andare alla deriva in pace?”

Ma c’è dell’altro. E cioè il posto che nella sua tutto sommato breve vita egli ha voluto riservare alla scrittura, scegliendo lucidamente di dedicarvisi non quando capitava, nei ritagli di tempo o di notte come usiamo noi dilettanti, ma in un momento ben preciso dell’arco esistenziale. Nel mezzo di mille occupazioni, lecite e meno lecite, uffici, cantieri, negozi, e ancora fallimenti, licenziamenti ma anche concrete possibilità di carriera volontariamente abortiti, un giorno Trevisan osservando un gruppo di colleghi ognuno chino sulla sua scrivania annota: “Dopo trent’anni nello stesso posto sarei esattamente come loro? No, mi dicevo, perché un giorno inizierò a scrivere, non so ancora quando, né come, ma un giorno inizierò e sarà finita”. 

Non tragga in inganno l’effetto ossimorico degli ultimi due verbi. Per lui scrivere non era un atteggiamento o un ripiego, e nemmeno una scusa per aggirare l’anonimato, ma un vero e proprio destino, avversato inizialmente dalle ordinarie necessità di una sopravvivenza, ma incontrato, infine. E incontrandolo gli ha aperto nuovi scenari, ma anche nuovi contrasti e incomprensioni, con l’ambiente culturale, ad esempio – a cui lui rifiutava di adeguarsi, – ma pure con se stesso. Fino alla più estrema delle conseguenze. Possa riposare in pace, adesso.