Più che l’assenza di Donald Trump, della cerimonia di insediamento di Joe Biden il 20 gennaio scorso, ha impressionato questa giovane ragazza, Amanda Gorman, poetessa. Aveva già fatto molto parlare di sé nel 2017, quando era stata la prima persona a beneficiare dello status di “Giovane Poeta Laureato d’America”: qualifica inconsueta, che pare sia stata creata apposta per lei. A Washington, quel giorno, è salita sul palco e ha cominciato a declamare il poema “The hill we climb”. Tutto in sintonia con una certa idea di America multiculturale (e transgenerazionale) che Biden e Harris prometteno di riportare alla ribalta durante il loro mandato. E va bene. Tiriamo un attimo il fiato. Quattro anni di infelici proclami trumpiani avevano quasi ridotto in macerie l’afflato del sogno di Martin Luther King.
Insomma, l’America e il mondo intero ascoltano i versi della Gorman e, naturalmente, piovono i contratti editoriali. I guai cominciano quando si comincia a parlare di tradurre “La collina” nelle lingue del vecchio mondo.
L’editore olandese Meulenhoff incarica Marieke Lucas Rijneveld, autrice e traduttrice tra le migliori nel Paese (ha vinto l’International Booker Prize con il romanzo «Il disagio della sera»). È una donna giovane, sensibile a certe tematiche, proprio come richiesto dalla Gorman che, inizialmente si dice entusiasta della scelta. Se non che, all’annuncio sui social, Rjineveld viene sommersa dalle critiche e costretta a demandare l’incarico, dicendosi “scioccata”.
Sarà solo un caso isolato? No, non lo è, perché due settimane dopo salta un secondo professionista. Si tratta di Victor Obiols, illustre traduttore in catalano tra gli altri di William Shakespeare e Oscar Wilde. Inizialmente assunto per riportare la poesia di Amanda Gorman (e relativa prefazione di Ophra Winfrey) nella lingua di Barcellona, scrive su twitter di essere stato rimosso dall’incarico dall’editore della Univers. Anche nel suo caso, il profilo era stato inizialmente approvato dai rappresentanti della Gorman, ma in seguito hanno deciso che non era adatto al lavoro. Cosa è successo? È lecito supporre vi siano state pressioni di qualche tipo? Da parte di chi?
Ma in definitiva, cos’è adesso questa storia che una persona dalla pelle bianca non può tradurre i versi di un poeta o di una poetessa nera? Ci sono tutti gli elementi per infilarci in una nuova e inedita psicosi generale, dopo quella degli asterischi posti in coda agli aggettivi (mamma mia…), un nuovo apartheid di ordine culturale e artistico di cui sono i bianchi, questa volta, a fare le spese.
Ho sempre pensato al mestiere di traduttore come ad un “mestiere” innanzitutto, perché trovo sia il non plus ultra dell’artigianalità artistica. Ma al di là di questo, il traduttore o la traduttrice sono dei tramite, sono lacci deputati a collegare culture di diversa provenienza, nello spirito di un mondo unitario che guarda alle differenze come risorsa irrinunciabile di una crescita morale. In questi due episodi vedo purtroppo una regressione. Non per la “solita” deriva del politicamente corretto. Qui ci troviamo davanti a qualcosa di più grave. Una forma discriminatoria nuova, a cui forse non siamo mai stati abituati.
Ippolito Pindemonte tradusse l’Odissea, eppure non era greco, ma veronese e andava matto per il bollito con la pearà. Tra il 1785 e il 1802, Henry Boyd, sebbene con molto ritardo, pur non muovendosi quasi per nulla dalla natìa Irlanda, pubblicò la versione inglese della Divina Commedia. Il traduttore è un benefattore dell’umanità, un missionario della poesia. Cosa diavolo c’entra il colore della pelle? Vogliamo dunque ripensare la struttura sociale del mondo, riprogettarla su un’idea di clan o tribù di simili, in base alla percentuale di melanina, al genere, alla classe sociale, ai gusti sessuali? Abbiamo già dimenticato chi faceva proseliti propagandando idee del genere nella Berlino degli anni Trenta del Novecento? Siamo talmente saturi e stufi del razzismo sopraffattore operato dai bianchi negli ultimi secoli, dalla tratta degli schiavi al caso di George Floyd, che fatichiamo ad accettare che possa esisterne uno di segno opposto, ma di uguale forza.
Se per tradurre una donna, giovane, attivista e nera è richiesta una donna, giovane, attivista e preferibilmente nera, non mi meraviglierei se domani per rendere nella propria lingua l’opera di uno scrittore dai capelli rossi e gli occhi verdi, cresciuto in orfanotrofio, fossimo costretti a scatenare la caccia al fenotipo corrispondente.
Come fa quel pezzo degli Everything but the girl? “You’re a little Hitler now / And you’ll grow up, heaven knows how”. (Traduzione? Non guardate me! Non sono del fenotipo giusto.)