Di certo sarei matto se mi mettessi a parlar male dell’ultimo libro di Don DeLillo e d’altro canto, se fossi matto, è probabile che potrei riconoscermi in uno dei tanti pazienti e casi umani raccolti dal dottor Paolo Milone nel best seller del momento, intitolato (con dubbio gusto, a mio parere) “L’arte di legare le persone”. Pertanto non scriverò cose negative dell’ultimo di DeLillo, ad esempio che mi fa pensare ad un romanzo abortito, ad una storia piena di promesse non mantenute; né mi azzarderò ad affermare che in fondo, a ben guardare, si tratta di un racconto di fantascienza (nemmeno originale, ne abbiamo visti infatti già diversi film e serie tv che raccontano di un blackout globale della tecnologia) elevato, certo, dalla maestria e dall’inconfondibile stile del Nostro, una scrittura di qualità coerentemente delilliana (e ottima la traduzione di Federica Aceto).Così, evitato lo stigma del matto, non mi crea nessun problema addentrarmi nelle memorie psichiatriche di Milone. Anzi: in un certo senso, terminate le 100 paginette scarse de “Il silenzio” e iniziato “L’arte di legare le persone” (ambedue da Einaudi editore), mi pare quasi di star continuando la lettura di uno stesso libro. (“Sarai mica diventato matto?!” starà pensando qualcuno. No, non credo. Altrimenti avrei parlato male di De Lillo ecc. ecc.)
Quanto De Lillo ci narra di un mondo in cui internet tace, e con lui i tweet, i post, i video e ogni tipo di schermo rimane nero, così Milone affronta il momentaneo spegnimento della ragione, quando “quello che viviamo straripa”, offrendo una serie di ritratti fulminanti della sua esperienza lavorativa in un reparto di Psichiatria d’urgenza.Due libri all’apparenza tanto differenti tra loro, per contesto e per pedigree degli autori, forse trovano questo punto di contatto nel concetto dell’incomunicabilità. Il silenzio della tecnologia a fronte del silenzio della coscienza. “E non è strano il fatto che certi sembrino aver accettato questa sospensione – scrive DeLillo –, questo guasto? Forse è qualcosa che hanno sempre desiderato a livello subliminale, subatomico”. Aver voglia di “silenzio”, non voler più vivere in una sorta di simulazione on-line dell’esistenza, martoriati da stimoli infiniti, irregimentati in truppe che combattono la guerra della crescita, della corsa perpetua. Non è forse lo stesso incubo da cui il matto vuole fuggire? Dal recinto in cui sente di non poter o sceglie di non voler più restare? E chi la decide, e in virtù di quale diritto acquisito, la larghezza di quel recinto?