Nei film americani di genere ”catastrofico”, al momento della tragedia di prammatica salta sempre fuori un poliziotto che allargando le braccia cerca di tranquillizzare la folla urlando: “Va tutto bene! State calmi! La situazione è sotto controllo!” Eppure i mostri hanno oramai invaso la città e dopo aver divorato altri suoi colleghi stanno per inghiottire in un sol boccone proprio lo stesso uomo in divisa.
Quando l’Italia entrò in guerra, nel 1915, tutto lasciava supporre che si sarebbe trattato di un conflitto lampo, che sarebbe durato qualche settimana e non un giorno in più. Le cose in effetti non andarono esattamente così. Sul fiume Isonzo, lungo la frontiera orientale Italo-Austriaca, l’esercito austroungarico piantò un’insuperabile linea difensiva. Tra il 22 giugno 1915 e il 31 agosto 1917, l’esercito italiano tentò per ben undici volte l’assalto in altrettante sanguinose battaglie. Nella prima 15mila unità morirono o vennero catturate. Nella seconda 40mila. Nella terza 60mila e così via fino all’undicesima. Nello scontro numero dodici, meglio noto come battaglia di Caporetto, gli austriaci respinsero gli italiani fino alle porte di Venezia. La guerra poi si concluderà come sappiamo.
Il fatto è che dopo la prima battaglia, il governo italiano avrebbe potuto riconoscere i propri errori e proporre un vantaggioso trattato di pace all’Austria. Vantaggioso per tutti e due. Gli austriaci in quel momento avevano altro a cui pensare, la Russia ad esempio. Perché allora i ministri italiani non lo fecero? Semplice. Per non doversi rimangiare la roboanti promesse di gloria fatte alla vigilia dell’entrata in guerra. Abbandonare dopo la prima battaglia avrebbe significato dover scusarsi con i genitori e con i figli di quei 15mila soldati perduti. Ammettere che la loro morte e la loro prigionia erano state completamente inutili. Meglio, dunque, provare con un secondo inutile assalto. E poi con un terzo. Eccetera, eccetera. Alla presa di coscienza cioè si preferì l’illusione perché l’illusione, si sa, in un certo qual modo riesce ad assegnare un senso alla morte e alla sofferenza.
È la sindrome da “i nostri ragazzi non sono morti invano”, ma si potrebbe definire anche disturbo del “abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno”. Sai benissimo che le cose stanno andando male eppure per non dover ammettere che quanto fatto fino a quel momento è stato inutile, continui ad illuderti di poter invertire la tendenza e volgere gli accadimenti a tuo favore.
È una sindrome o disturbo che può spuntare anche in altri ambiti della vita sociale e personale.
Nella malattia, ad esempio. Sarà capitato anche a voi di avere un parente o un conoscente affetto da una grave malattia che, con il corpo visibilmente provato, vi dice che va tutto bene, che i miglioramenti sono lenti ma ci sono: tutto tranne la verità e cioè che la terapia non sta funzionando e la fine si avvicina sempre più.
O quanti imprenditori o commercianti, imbarcati in imprese discutibili e antieconomiche, preferiscono tirare avanti per anni, accumulando debiti su debiti, pur di non dover ammettere che aprire quell’attività è stato un clamoroso errore e che effettivamente i “nostri ragazzi sono morti invano”?
E che dire invece di certe vite coniugali che con gli anni si trasformano in una specie di inferno eppure non portano ad un divorzio, ad una separazione solo perché uno dei due coniugi o entrambe non se la sentono di fare alcune importanti ammissioni: mettersi assieme è stato un errore, fare dei figli si è rivelato un azzardo, indebitarsi per quell’appartamento o per quell’automobile un completo fallimento?
Pensiamo a certi appalti pubblici, certi progetti urbanistici (a Trento ne abbiamo qualche esempio…) che partono con un preventivo di spesa accettabile e finiscono con almeno due zeri in più.
La stessa logica la intravediamo nel giocatore seriale, nel ludopata, nello scommettitore: per lui è impossibile fermarsi fino a che si ritroverà anche un solo euro in mano. Uscire dalla sala scommesse con dei soldi ancora in tasca significherebbe averne perso una parte o peggio aver perso delle magnifiche opportunità di ulteriori milionarie vincite (è proprio questo uno dei meccanismi che fa la fortuna del gioco d’azzardo e delle società che ci stanno dietro, Stato compreso).
In conclusione quello che accomuna tutti – il poliziotto del film americano, i governanti italiani durante la Prima guerra mondiale, il nostro sfortunato amico ammalato gravemente, il commerciante che nega l’evidenza, i coniugi malassortiti, il politico malaccorto, il giocatore – è questo mix di ostinatezza e presunzione che spinge a perseverare nell’errore, anziché interrompere l’azione e correre immediatamente ai ripari.
Pazienza per quello che si è perduto, pazienza per l’umiliazione che ne conseguirà, pazienza per il danno d’immagine e per tutto il resto.
Errare humanum est, perseverare autem diabolicum scriveva sant’Agostino d’Ippona nei suoi Sermones. In fondo, che siate al primo anno di matrimonio, alla prima ora di slot machine o alla prima battaglia dell’Isonzo, a ben guardare, forse c’è ancora il tempo per rifarsi.