“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua – scriveva Dino Buzzati sul “Corriere della sera”, l’11 ottobre 1963 – e l’acqua è caduta sulla tovaglia. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri – continuava – il sasso era grande come una montagna e sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi”.
Come avrebbe parafrasato il grande scrittore e giornalista, tanto geniale nel riassumere i fatti del Vajont, una tragedia come quella del Cermis? Me lo sono chiesto più volte in questi 25 anni, ma non sono mai riuscito a darmi una risposta. Troppo assurdi per essere veri i fatti di quel giorno. Troppo fantasiosi per essere sintetizzati in un articolo. E troppo sconcertante l’iter giudiziario e politico seguiti. Con tutta probabilità Buzzati avrebbe tenuto a lungo le dita sulla sua macchina da scrivere, cercando nel suo magazzino di metafore, ma poi si sarebbe arreso allo sconcerto. Perfino lui. Tanto più nell’apprendere come quella dei voli militari radenti non fosse una novità, ma un’insana abitudine. Che già il 22 agosto 1996, solo un anno e mezzo prima, il Presidente della Giunta provinciale, Carlo Andreotti, in una lettera inviata al Ministro della Difesa, Beniamino Andreatta, visti i ripetuti episodi accaduti in provincia, chiedeva di vietare il sorvolo dei centri abitati per escludere ogni pericolo per l’incolumità della popolazione. “No comment” avrebbe mormorato Buzzati, con la pipa tra i denti, scuotendo la testa nel leggere la risposta che Andreatta inviò alla Provincia di Trento il successivo 11 dicembre: “L’attività di volo alle basse quote è una forma di addestramento di fondamentale importanza per l’Aeronautica Militare e l’elevata densità demografica del nostro Paese rende praticamente impossibile effettuarla senza sorvolare centri abitati”. Tredici mesi dopo, un aereo della marina U.S.A. avrebbe tranciato i cavi della funivia del Cermìs, uccidendo 20 persone.
A qualcuno potrebbe dar fastidio che si scriva ancora di questi fatti. Mi pare di sentirli: “quando voi giornalisti non sapete proprio cosa scrivere, ogni volta, vi mettete a fare gli archeologi: facciamo polemiche sulle guerre puniche, allora; processiamo Ottaviano per il suo colpo di stato; facciamo le pulci a Carlo Quinto e Maria Stuarda… E poi, cari giornalisti, se proprio lo volete sapere, di voli militari radenti non ce ne sono stati più. E fatela finita una buona volta. Lasciate in pace la Valle di Fiemme. Ci spaventate i turisti, lo volete capire?! Quello che è stato è stato”.
Così, è questo silenzio che umilia più di tutto. Questo recondito desiderio di rimozione, di cancellazione dagli archivi della pietà, il diritto all’oblio dell’ingiustizia, dell’assenza di un colpevole.
Il mito greco e l’antico Testamento ci hanno tramandato storie di punizioni esemplari, atroci, talmente spietate da muoverci a compassione. Era un mondo, quello, in cui per quanto furbo e scaltro venissi al mondo, non potevi sfuggire al controllo e alla supervisione delle forze trascendenti. Stiamo entrando nel venticinquennale di quel tragico giorno e ancora nessun supplizio divino è sceso sui responsabili di questa tragedia. Se è per quello, nemmeno adeguate punizioni terrene. Insomma, che per un fatto tanto grave non siano stati individuati colpevoli è quanto meno strano o no?! È vero, in Italia delle volte siamo giustizialisti ed esageriamo nella ricerca delle responsabilità. Incidenti ferroviari, delitti passionali, intrighi bancari: se non si trova subito un colpevole in Italia noi, l’esercito dei media, andiamo in tilt. Ma allora perché per quanto avvenuto quel 3 febbraio 1998 nessuno reclama più giustizia?
Forse perché in questa vicenda la giustizia è stata letteralmente svuotata di significato. Innanzitutto nella decisione di processare i piloti negli USA anziché in Italia, nella loro assoluzione, nella ridicola “succedanea” condanna a sei mesi per “intralcio alla giustizia”. La giustizia è stata umiliata nel 2002 quando il capitano William Raney, uno dei quattro militari americani che erano a bordo del Prowler che tranciò i cavi della funivia, venne decorato dall´esercito americano per la sua partecipazione ad azioni in Iraq come responsabile della sicurezza (sic!) in volo. Giustizia tradita nel novembre successivo, quando il capitano Chandler Seagraves (altro componente dell’equipaggio) venne addirittura promosso Maggiore (“…suona come offesa e reca nuovo dolore anche ai trentini, oltre che ai familiari delle vittime”, disse Lorenzo Dellai, l’allora Presidente). La giustizia è stata annichilita da quei risarcimenti miliardari, fissati per legge, a tempo di record, nel dicembre del 1999; una montagna di soldi che ha tolto definitivamente alle vittime il diritto di dare un volto al responsabile della loro stessa morte.
Insomma, ora è rimasto solo il silenzio attorno a quella cabina piombata nel vuoto ai Masi di Cavalese. Quei venti devono essere veramente “morti di freddo”, come titolò il Manifesto all’indomani della sentenza di assoluzione. “Non commento una sentenza in Italia, figuriamoci negli Stati Uniti”, dichiarò quel giorno il premier Massimo D’Alema, dopo il suo colloquio con il Presidente americano Bill Clinton.
Caro Dino Buzzati, sai che c’è? Siamo rimasti senza parole anche noi, adesso.