All’inizio fu Isaac Newton a esplorare in maniera scientifica i colori, svelando i sette primari. Ciò permise agli artisti di creare le più impensabili sfumature partendo da tre colori, il rosso, il giallo e il blu. Poi venne Goethe a interpretare la storia e la teoria dei colori recuperando antiche teorie legate, ad esempio, all’importanza delle ombre colorate, elemento questo che agli scientifici fugge, scevri come sono dall’idealismo: «Le ombre colorate non sono visibili da sole, ma soltanto nel contesto in cui appaiono. Non hanno lunghezza d’onda e non sono misurabili, quindi – secondo gli scienziati – non esistono e vengono quindi definite un’illusione ottica. Ciononostante noi li vediamo.»
Dalle ricerche della Bauhaus, vulcanica fucina di teorie, scaturiscono gli studi di Johannes Itten e il suo cerchio cromatico (1961) dove i colori sono divisi in primari, secondari e terziari, creando in tal modo un ponte tra le avanguardie storiche – soprattutto Vasilij Kandinskij, Franz Marc e l’ambiente poliedrico del Monte Verità di Ascona – e le ricerche analitiche dell’arte contemporanea. Ma oltre al tumultuoso fiume artistico ci sono altri luoghi in cui la presenza del colore può suggerire nuovi sentieri da percorrere. Uno di questi luoghi è la Qabbalah, dove il colore è utilizzato come una delle tecniche mistiche che permettono all’individuo di compiere viaggi, attraverso le dieci Sefirot, ovvero l’albero della vita, dalla materialità alla spiritualità: il colore come preghiera. La concezione della Qabbalah è che le parole della preghiera siano simboli delle potenze divine e perciò possano servire da punto di partenza per la contemplazione di entità più elevate, come mezzo per influenzarle, o per entrambi i fini. Mentre Kandinskij mette in scena l’aspetto simbolico dei colori, la Qabbalah asserisce che il “colore” è un sentiero che si può percorrere per modificare il proprio essere e accorciare le distanze (infinite) tra Dio e l’uomo. David ben Yehudah he-Hasid, cabalista spagnolo (fine XIII-inizio XIV secolo), ricorda che David disse: «Non ci è consentito di visualizzare le dieci Sefirot. […] Perciò visualizzerai sempre quel colore attribuito alla Sefirah secondo i rashe peragim, poiché esso riveste tutto intorno quella medesima Sefirah. Di poi, in virtù della tua visualizzazione, capterai l’efflusso dalla profondità del fiume verso i mondi inferiori fino al nostro: questa è la vera via ricevuta per tradizione orale».
Il colore diventa quindi l’unico elemento per visualizzare le Sefirot. Qui i testi cabbalistici, e non solo, si sono sbizzarriti. I colori da fisici diventano spirituali – chissà se Goethe così come Kandinskij non si siano abbeverati nella cultura ebraica del loro tempo –, le lettere si ammantano di colore. I colori compaiono quindi in stretta connessione con il nome divino e la manifestazione delle lettere colorate – pregate, invocate, mangiate, digerite, aspirate, arrotolate attorno alla lingua e alla mente – provocano un’alterazione dello stato di coscienza. Il risultato di questo uso del colore ci porta direttamente alla composizione di una molteplicità di mandala cabbalistici. Ci sono diversi artisti, del passato e del presente, che utilizzano il colore per le loro costruzioni mandaliche, da Monica Morganti all’inglese James Brunt, ad Alice Cristallo, alla bosniaca Ailin Karic Plakalo, a Lizzie Snow, artisti che operano parallelamente al mondo artistico “ufficiale” col quale auspichiamo la nascita di ponti affinché le contaminazioni portino i loro frutti.
Per approfondire: Qabbalah di Moshe Idel (Adelphi, 2010) – soprattutto il capitolo Visualizzazione di colori e preghiera cabbalistica –, facendoci aiutare da Giulio Busi, Qabbalah visiva (Einaudi, 2005). Il mondo dell’arte ne acquisterebbe in profondità e gli artisti avrebbero a loro disposizione ulteriori sentieri da calpestare.