Puntualmente, succede ogni volta che leggo un nuovo libro di Emmanuel Carrère: da chissà quale dimensione giunge silenziosa e affilata una qualche epifania. La ragione non è solo di ordine strettamente personale, dacché ho sempre percepito nelle opere dello scrittore francese una misteriosa corrispondenza, come se le sue parole avessero sempre qualcosa a che fare con la mia vita. Boh. Piuttosto, l’epifania di cui sopra è provocata anche da un sospetto.
Un sospetto che ogni volta cresce man mano che procedo nella lettura, fino a divenire enorme, ingestibile, travolgente. Il sospetto è che se quanto Carrère scrive – vero e falso, rispettoso o irriverente che sia – mi corrisponde è proprio perché è soltanto questo lo scopo della letteratura. E se Carrère non scrive romanzi canonici, ma un curioso coacervo fatto di memorie, cronaca e fiction, allora, mi perdonino le signore e i signori in sala, vuol dire che “tutta” la letteratura dovrebbe essere scritta a questo modo. Tutta la letteratura dovrebbe essere nient’altro che “testimonianza”. La descrizione in presa diretta degli effetti che la vita produce su chi scrive. Come se la vita fosse un farmaco sperimentale, un continuo elettrochoc. Oppure una disciplina come lo “Yoga” (questo il titolo del libro, edito da Adelphi, pag. 300, Euro 20).
Ma c’è dell’altro.
Da quanto qui sopra scritto consegue che lo scrittore dovrebbe avere ogni volta il coraggio di infilare le mani e il collo nella gogna e starsene lì a beccarsi le frecciatine e le ironie, quando non gli insulti, del popolo lettore, che storcerà il naso sempre: che si tratti del racconto di una beatitudine (lo yoga), o di quello di una dannazione (l’elettrochoc).
“Nelle tenebre – ci confessa l’autore a pagina 163 – è fondamentale ricordarsi di aver vissuto anche nella luce e che la luce non è meno vera delle tenebre”.