Joan Didion è morta, viva Joan Didion. A poche settimane dalla scomparsa della grande autrice americana, torna alla ribalta il suo memoir del 2006, che il Saggiatore ha ripubblicato proprio lo scorso anno. Un libro del lutto, ma un libro della vita: il paladino senza volto che cerca di ricacciare la morte nelle oscurità degli inferi opponendo un senso dell’ordine e la consapevolezza di un’umanità. Il 30 dicembre 2003, mentre sta cenando con lei, John Dunne – suo marito da 40 anni, altro grandissimo scrittore – si accascia sul pavimento, stroncato da un infarto. Per Joan comincia in quell’istante, mentre i sanitari tentano disperatamente di rianimare l’uomo, l’Anno del pensiero magico (questo il titolo del libro), una sospensione delle attività empatiche, un anno sabbatico vissuto tra il vuoto lasciato da John e il dolore tremendo per la prolungata infermità della loro unica figlia, Quintana.
Che ne è dell’esistenza quando si trasferisce negli ospedali? Quando alle emozioni, alle parole e ai sentimenti si sostituiscono referti, statistiche e studi clinici? E che fine fa la speranza quando si scopre che cos’è veramente un organismo vivente, in balia di quale aleatorietà è costretto a muoversi nel mondo? Perché “una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita”. La vita cambia in un istante, ma come: non lo sapevate?
Con la prosa che l’ha resa celebre, Joan realizza qui il suo reportage più importante: quello sulla propria anima. E riflette, quell’anno, sulla mancanza di significato, un tema che fin dalla più tenera età l’ha afflitta, ma che per tutta la vita l’ha anche animata umanamente e culturalmente. A consolarla e a preservarla da un nichilismo distruttivo, ecco spuntare una compagna inaspettata: la geologia. Il pensiero consolatorio che tutto in Natura tende a riportarsi in una situazione di ordine iniziale. Nei terremoti, nelle inondazioni o anche in una semplice cascata riecheggiano martellanti le parole della liturgia: “Com’era nel principio, ora e sempre, nei secoli dei secoli”. C’è un disegno nei movimenti tettonici, nei processi erosivi, così come – su un binario parallelo – nel mestiere di madre e di moglie, nelle mille piccole abitudini della vita quotidiana e dunque c’è anche un senso. Due binari che corrono perfettamente allineati, almeno fino alla sera del 30 dicembre 2003, quando il cuore di John Dunne cessa di battere. Joan Didion lo sapeva. Sapeva che l’andamento dei binari – quello geologico e quello famigliare – avrebbe presto o tardi subìto un’inversione. Sarebbe accaduto prima o poi. Eppure la cosa non l’avrebbe sorpresa. Joan avrebbe trovato perfettamente normale venire spazzata via da uno tsunami o da un sisma devastante, perfino da un’esplosione nucleare, ma non veder morire a quel modo suo marito, durante una cena, nel tempo anonimo di una sera qualsiasi.