Uno dei fenomeni più interessanti offerti dei social è quello delle santificazioni post-mortem. Grandi artisti, presentatori, teste coronate che lasciano questo mondo provocando negli utenti del web una curiosa forma di commozione che li spinge a postare ricordi delle persone o delle loro opere, lasciando alludere di aver avuto in passato un qualche tipo di “legame” con il caro estinto in questione. Ma non è su questo aspetto che intendo discettare, quanto su un fenomeno nel fenomeno che mi è parso di scorgere in occasione di due recenti lutti pubblici. Mi riferisco allo scrittore Milan Kundera (1929-2023) e all’attrice e cantante Jane Birkin (1943-2023). Saltando a piè pari il capitolo degli effettivi meriti artistici dei due compianti, vorrei provare a condividere alcune riflessioni.
All’indomani dei due eventi (Kundera è mancato l’11 luglio scorso, la Birkin cinque giorni dopo) ho notato come tutti i post celebrativi – ma anche i coccodrilli della stampa, copertine di ”Liberation” comprese – riportavano le fotografie delle due celebrità così come erano negli anni Settanta, Ottanta del ‘900. Lo scrittore cecoslovacco appare, poco più che trentenne, tenebroso, affascinante, spesso con un sigaro tra le dita. L’attrice britannica (naturalizzata francese) ovviamente è l’icona di sensualità che l’ha resa celebre, le immagini sono del periodo di “Blow up” e del sodalizio professional-amoroso con Serge Gainsbourg. Questa galleria di giovani seducenti e irresistibili – ritratti nel bianco e nero dell’epoca – mi ha fatto venire voglia di scoprire che aspetto avessero negli ultimi giorni delle loro vita terrena. Ebbene, ho soddisfatto la mia voglia ed eccomi qui a scrivere cosa ne ho dedotto.
Innanzitutto che nell’immaginario collettivo le persone celebri “muoiono” relativamente prima del loro decesso effettivo, corporale. Quel che diventano dopo non conta, o solo relativamente. Kundera e Birkin sono morti da vecchi (il primo da molto vecchio). Lo possiamo dire? Ci è consentito mostrare le loro facce di vecchi? Volutamente indugio sull’aggettivo, per una ragione molto semplice. Perché dopo la conclamata rimozione della morte, portata a compimento nelle società occidentali, mi pare che ci si avvii ad una nuova rimozione. “La vecchiaia – scrive James Hillman – non ha come fine la morte, ma a essa spetta un compito preciso: svelare e portare a compimento il proprio carattere”. Si tratta cioè di un’età che, come tutte le altre, ha una sua funziona precisa: quella di consentire all’individuo di fare i conti con se stesso e con la propria finitudine. Pertanto, il fatto che la civiltà dell’immagine in cui siamo immersi, la censuri tanto spudoratamente può significare una sola cosa: che l’uomo e la donna di oggi aborrono “il” limite per eccellenza, quello della vita. Eppure sarebbe proprio quello lo strumento migliore, forse l’unico, per poter comprendere veramente se stessi.
Non esistono farmaci per la vecchiaia, per il semplice fatto che non si tratta di una malattia, bensì di un normale stadio dell’esistenza umana. È questo ostinarsi a considerarla una patologia la vera patologia, questo quotidiano genuflettersi agli altari della nuova chiesa del transumanesimo.
Occorre coraggio, certo. Bisogna riuscire a vivere con semplicità il presente, senza farsi ingabbiare dal passato né angosciare dal futuro. Però è l’unica strada per evitare che la rimozione della vecchiaia svuoti di significato tutte le età che la precedono, rendendole un tempo inutile che non può portare da nessuna parte.