La fiaba più cattiva è la realtà

La fiaba più cattiva è la realtà

Certo che i libri sono proprio congegni strani e il nostro lettore non avrebbe mai detto che in mezzo ad un mare di romanzi curiosi, strambi, postmoderni, visionari, commerciali, furbettini, a colpirlo questa volta sarebbe stato uno che – apparentemente con poca originalità – riprende una storia conosciuta, conosciutissima. Non una storia qualsiasi, ma la più conosciuta: quella di Pinocchio. Ecco allora che immergendosi tra le pagine di questo “Mastro Geppetto” può capitare di ritrovarsi in un inaspettato ritorno all’infanzia perduta. E all’innocenza. 

E per riscrivere la storia di uno dei papà più celebri e stralunati dell’immaginario umano, Fabio Stassi in “Mastro Geppetto” (Sellerio, pag. 209, Euro 16) poggia come sempre il suo mestiere di narratore su basi solide: vocaboli, verbi, dialettismi, tutte “parole scelte con cura, con il rispetto che ci vuole, una ad una”. Materie prime necessarie per poter spingersi in tanta crudeltà, pur senza apparire come un assassino.

Geppetto è uno di noi, lo sapevamo anche prima, solo che ce ne vergognavamo e incontrandolo per strada giravamo la testa dall’altra parte. Ci assomiglia, si fa le nostre stesse domande. Ad esempio questa, un classico: “chi è che ci getta senza nessuna pietà nel pandemonio del mondo?”
Ed un classico può anche essere reinterpretato. Succede nella musica con gli “standard jazz”, temi molto noti che col tempo divengono classici della musica, jazz, appunto. Stessa cosa per le fiabe. Preciso, proprio! Stassi qui, però, ci concede qualcosa in più. Ci confida che la versione di Geppetto – quella scritta da Collodi, tramandataci da film, fumetti e canzoni – è falsa. Boom! Ecco la fine delle illusioni: questo libro pugnala alle spalle. Come quando hai quindici anni e la ragazzina per la quale hai perso la testa, inaspettatamente, ti lascia. La fiaba più cattiva è proprio la realtà.

Insomma, a dire la verità, pare che le cose non siano andate esattamente come si racconta in quel libro di tardo Ottocento. D’altra parte le vite raccontate non corrispondono quasi mai alle vite effettive. Abbiamo sì un ciocco di legno iniziale, un’idea di scultura antropomorfa, ma il resto è un deserto di crudeltà e di promesse non mantenute. Geppetto fa scempio di sé, dà spettacolo della propria follia, cercando con ogni forza e contro ogni buon senso quel che ha di più prezioso nella vita. O che forse vorrebbe avere. “Vince nella fiaba il folle che ragiona a rovescio”, scriveva Cristina Campo. Geppetto non lo fa, e decide di andare dritto per dritto, così in questo romanzo perde clamorosamente. O forse vince, chi lo sa. A trionfare è invece lo scrittore Stassi perché proprio ragionando “a rovescio” non rinuncia a costruire il suo, di burattino – un romanzo su Geppetto! – che, attraverso la più classica delle metamorfosi comunicative, attingendo dalla memoria personale – come ci viene svelato in una commovente postfazione – improvvisamente si fa carne e dolorosa umanità.

Un incontro, infine, uno dei mille che Geppetto fa durante il suo tempestoso girovagare. È un faccia a faccia con un pericoloso serpente.
Pregandolo di lasciarlo in vita, il vecchio inizia a raccontargli la sua storia. Lo fa con la bonomia e l’affabilità di quando si parla con un amico, arricchendo la narrazione con particolari divertenti, così, tanto per ridere, e “tanto da non sapere più se la vita sia questa mancanza o questa allegria”. È così bello quando qualcuno se ne sta lì a sentire le nostre parole. È tanto consolante sentirsi compresi, farsi abbracciare da chi ha deciso di tenere a cuore il nostro destino. Ma siamo sicuri che ci sia davvero qualcuno, là fuori, ad ascoltarci?