Il protagonista di questo libro è amico mio

Il protagonista di questo libro è amico mio

Il protagonista di questo libro è amico mio. Non me lo ricordavo più, mannaggia. Le mille cose delle vita, gli impegni, ‘sta seccatura della pandemia mi aveva fatto dimenticare che potevo contare sul legame con Maniele Dusto. Chi è? Lasciate che ve lo racconti. Un saggio, senza ombra di dubbio. Scavezzacolo, però. Ma un saggio resta pur sempre un saggio anche se ama mettersi nei casini. Perché “saggio”? Per diverse ragioni.

La prima è che sin da ragazzo ha capito come far buon viso a cattiva sorte. Se ad esempio – come la realtà ha voluto per lui – ti ritrovi con la faccia di uno pronto a farsi mettere i piedi in testa da chiunque, reagire subito. Impegnarsi alla morte con lo studio per diventare cardiologo. Uno cioè che nella vita è sempre meglio tenersi buono che non si sa mai. Ma questo amico mio, Maniele, ama esprimere la sa saggezza antica distribuendo, come un gesù qualsiasi, precetti di vita. Uno in particolare mi ha conquistato: la teoria del callo. Quel che nella vita è davvero importante è “farsi il callo”. Il callo è tutto. Dobbiamo farcene una ragione. Se perdiamo il lavoro, se la nostra donna fa le valigie, se il conto in banca si è seccato come l’Ofanto: ripetiamo il mantra salvifico. Il callo è tutto. Il callo è tutto. Il callo è tutto…

Quanto è tenero, questo amico mio, di cui avevo perso ogni traccia, quando ricorda la sua adolescenza, gli anni della scuola, in cui – non ne sono certo al cento per cento – abbiamo frequentato qualche classe assieme. Maniel era un ragazzo introverso, me lo ricordo. Viveva con la nonna perché i suoi si erano separati di brutto. Solo che poi la nonna è morta, al momento sbagliato. Non che ci sia un momento giusto per morire, ma la vegliarda morì nello stesso momento in cui Maniel era riuscito a coronare il suo sogno di limonare con la più bella della classe. Non si fa così, dai nonna!

A quel punto, la solitudine del Nostro si acuì al punto che, disperato, dovette cercarsi un surrogato di famiglia. Gli diede una mano la tivù commerciale che Silvio Berlusconi stava regalando in quei mesi all’Italia. A quel punto ero onorato di conoscere il figlio di Marco Columbro e di Fiorella Pierobon, anche se aveva deciso di abbandonare la scuola, tanto era depresso. Poco potevano le procaci figure che saltavano fuori dal video: Samantha Fox, Tinì Cansino e company. Piaceri temporanei e nulla più.

Tutto cambiò per lui quando il destino gli si presentò sotto forma di evento metafisico, ultradimensionale. Un po’ quello che accadde ad Albert Einstein davanti alla Torre dell’Orologio di Praga o a Marcel Proust mandando giù quelle indigeste madeleines. Maniele Musto si trovò davanti alla raccapricciante scena di una tortorella spiaccicantesi sul vetro della finestra. Un suicidio, senza ombra di dubbio. Un atto estremo di autolesionismo che – chissà come – esorcizzò tutti i possibili gesti che il ragazzo avrebbe potuto rivolgere verso se stesso. Una catarsi. Una resurrezione. È a quel punto, cominciò tutto.

Oh, e che sia chiaro una volta per tutte: quanto che si racconta in questo libro (“Wonder Boy”, di Daniele Musto, Arkadia, pag. 174, Euro 15) è veramente accaduto, Fidatevi! Servizi segreti israeliani compresi. Ma non posso raccontarvelo tutto. Altrimenti la recensione muterebbe in spoileraggio selvaggio e molti non correrebbero ad acquistare il libro, come invece sicuramente faranno se ora mi fermo qui.
Ecco. 
Stop.

PS: Questa recensione è stata offerta dall’Amaro Medicinale Giuliani. Contro i bruciori di stomaco degli esclusi-battuti-delusi dal Premio Strega e da tutti gli altri premistrega a cui si deve per forza concorrere vita. L’importante è farci il callo.