Ci sono libri in cui l’autore narra della propria malattia o di quella di un proprio caro. In “Come d’aria” (elliot, pag. 132, Euro 15) si fanno entrambe le cose e, in più, il narratore (in questo caso narratrice, Ada d’Adamo) muore a pochi giorni dalla nomination allo Strega; premio che naturalmente vince postumo.
La sensazione leggendolo è quella di immergersi in un diario intimo, scritto a fini prettamente terapeutici. Lo fanno in tanti, oramai. Trafitti dal dolore, annichiliti dalla malattia, spenti dalla violenza delle cure cosa c’è di più sensato che mettere su carta il proprio sconcerto? Vi leggiamo la cronaca di giorni grigi, i pensieri, le riflessioni, le citazioni. No, non è letteratura né fiction, ma le pagine commuovono e muovono a pietà. Soprattutto se pensiamo che quando Ada scopre di essere malata, già da diverso tempo è costretta ad assistere una figlia, Daria, affetta da una disabilità grave. Il racconto è accorato fin dal principio, dalla gestazione. “Pensavo – scrive Ada – che la semplice convinzione di non volere un figlio disabile bastasse a far sì che non potesse accadere”. Ma, prepotenza della vita, Daria nasce ed ecco che attorno alla vita dei suoi genitori si forma un vuoto. “La grande fuga”, la chiama lei. I parenti evitano di rispondere al telefono, gli amici li evitano per strada. “Ogni malattia rompe un equilibrio”. Ed è di quello che invece sembriamo aver bisogno noi esseri umani, “come d’aria”. Ecco perché ci piace leggere storie terribili come questa. Perché ci rassicura, ci consola, ci conforta nell’estraneità a certe vendette del destino. Non si nega nulla a chi come Ada si è immolata nel rendicontare il proprio dolore e la propria fine: non la pubblicazione, non la candidatura al premio Strega, non il successivo scontato trionfo.