Cristina Campo: quel che veramente esiste

Cristina Campo: quel che veramente esiste

Folgorazione, ovvero – come troviamo nell’enciclopedia Treccani – illuminazione, intuizione, ispirazione, idea. Questa parola l’avevo sentita da piccolo a proposito della conversione di san Paolo, folgorato sulla via di Damasco, un episodio della storia tanto famoso da essere divenuto proverbiale. Ed è la parola giusta per capire quanto mi è successo leggendo l’incredibile libro, vera e propria “porta regale”, Gli imperdonabili, della purtroppo dimenticata Cristina Campo (1923-1977).

È soprattutto il suo amore per il mondo delle fiabe che mi ha catturato e trascinato lungo le apparentemente impervie vie del folklore, che si confondono continuamente con la mitologia. Una frase, tratta dalla sua poesia Diario bizantino, scritta con una delicatezza tipicamente giapponese, mi ha fatto sentire che i miei pensieri nei confronti del mondo e degli abitanti del Regno segreto – così il ministro presbiteriano scozzese Robert Kirk, alla fine del Seicento, ha definito il mondo abitato dalle creature fatate – non sono soltanto silenziosi monologhi e spettrali sogni: due mondi – e io vengo dall’altro. Basta questo incipit della Campo per non sentirsi soli, abbandonati, trascurati. Il mondo dei fairies, delle fate così ben raccontate da Collodi, degli elfi e degli gnomi – indagati antropologicamente dal nostro Giuseppe Sebesta –, dei coboldi e delle streghe, ossia di tutte quelle tribù che frequentano quell’universo che gli increduli si ostinano a ignorare, improvvisamente ritorna ad essere presente, vivo e partecipe alla nostra vita. In quei due mondi – e io vengo dall’altro – c’è tutta l’inquietudine della scoperta delle creature nostre sorelle che ci avvertono che, oltre al nostro mondo, esiste anche quello del popolo nascosto con il quale dialoghiamo tanto quanto con noi stessi e con gli altri cari. Due mondi, due parole per unire due universi, l’uomo con l’uomo, l’uomo con il popolo segreto, l’uomo con Dio.


Seguendo le sue parole quando scrive che percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente, si scopre che […] e che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo? (Una rosa da Gli imperdonabili).
Cristina Campo apre le finestre sull’eterno ritorno, sulla circolarità del tempo, delle cose e dell’uomo. Nel caso della fiaba, ci augura di compiere un viaggio la cui meta raggiunta, al di là dei sette monti e dei sette mari, sia una terra oltremondana, dove il re canuto incontra la bambina che parte alla ricerca della madre morta. La fiaba è un’orditura incessante di attimi inafferrabili, fissati al loro massimo di splendore: il derviscio separa con le due mani un fumo d’incenso e attraverso quell’apertura il prigioniero può uscire in un giardino. Una piccola porta si dischiude alla principessa fuggitiva nel tronco di una quercia e al di là sono vasti campi, ignoti e solitari.

In un tempo felice era prerogativa dei vecchi raccontare le fiabe e in tal modo imprimevano alla vita di noi bambini il ritmo indelebile dell’infanzia, introducendoci al mondo dei simboli: un mondo che ci forniva gli strumenti necessari nella vita adulta per conoscere ciò che sta sotto e ciò che sta sopra, svelandoci i segreti delle cose, delle strade, dei pianeti e degli animali, dei fiori e del popolo segreto. Su tutto questo aleggia il grande disvelamento: la capacità di capire e comprendere il paesaggio che si schiude davanti a noi, rivelando le pieghe meglio sepolte, introducendoci nella geometria di tempo e di spazio, dove si cammina per ore senza mai uscire da un cerchio o, al contrario, si tocca in pochi passi l’orlo dell’illimitato.
Perché le fiabe, per la scrittrice così come per me – affinità elettive riscoperte quando è stato necessario – sono delle cabbale che accostano l’essere umano al potere dei simboli e insegnano a ragionare alla rovescia, a passare a un nuovo ordine di rapporti. Le fiabe sono l’unico modo per avvicinarsi agli altri. Cristina Campo materializza questo insegnamento con una scrittura talmente fitta di significato da meritarle l’appellativo di vera e propria poetessa e scrittrice di archeologia linguistica.
Elémire Zolla coglie appieno le potenzialità e l’amore per il simbolo della scrittrice: formeranno una coppia nella vita, ma il loro amore si fermerà al limitar della soglia della fiaba. Tuttavia tanto è bastato per farci capire che bisogna, per operare in questo e in quell’altro mondo, avere l’occhio-ape, viaggiare tra le fiabe e il gregoriano, dal proverbio popolare al rito bizantino, da Proust a Borges, da Lawrence Olivier a Gerard Philipe, da Shaharazad alla mazurka, e sempre staccarne qualche cosa di vertiginoso e essenziale: il simbolo, il mistero, la perfezione, il destino, questo è un degno parlare umano ad umani.

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Pubblicato da Fiorenzo Degasperi

Fiorenzo Degasperi vive e lavora a Borgo Sacco, sulle rive del fiume Adige. Fin da piccolo è stato catturato dalla “curiosità” e dal demone della lettura, che l’hanno spinto a viaggiare per valli, villaggi e continenti alla ricerca di luoghi che abbiano per lui un senso: bastano un graffito, un volto, una scultura o un tempio per catapultarlo in paesi dietro casa oppure in deserti, foreste e architetture esotiche. I suoi cammini attraversano l’arte, il paesaggio mitologico e la geografia sacra con un unico obiettivo: raccontare ciò che vede e sente tentando di ricucire lo strappo tra uomo e natura, tra terra e cielo, immergendosi nel folklore, nei miti e nelle leggende. fiorenzo.degasperi4@gmail.com