“È un periodo orribile, e per me per particolari ragioni, nel senso che pochi giorni fa è morta mia moglie, stroncata dall’Alzheimer. Era ospite assieme a me della casa di riposo Grieserhof di Bolzano, nella quale rimarrò fino a quando verrà il mio turno di andarmene. Ho 85 anni e non dovrò aspettare molto…” così mi scriveva Umberto Gandini qualche mese fa. Una frase che mi aveva raggelato e che oggi, apprendendo della sua improvvisa scomparsa, mi lascia nuovamente attonito.
Grandissimo traduttore, uomo di cultura e di teatro, non è certo questa la sede per elencare il suo lunghissimo e premiato curriculum, quanto per portare la mia, piccola, personale testimonianza. Quella di una stima reciproca, nata fin dal 2001, quando premiò un mio testo, poi messo in scena dal Teatro Stabile di Bolzano.
Già da tempo gli avevo chiesto una collaborazione per le mie ricerche sui fatti di Via Rasella del 1944 e del III Polizeiregiment “Bozen”. Aveva accettato. Tra le altre cose, infatti, nella sua attività giornalistica, spicca il dossier del 1979, intitolato “Quelli di Via Rasella”. “Il direttore dell’Alto Adige, Gianni Faustini, mi diede tre giorni di tempo – così ricordava, divertito –, che trascorsi letteralmente correndo da una parte all’altra della provincia, sulla scorta dei nomi che riuscii via via a rintracciare. Il risultato furono i quattro articoli che pubblicammo, poi raccolti nell’opuscolo”. Un’opera, la sua, che ritengo fondamentale per penetrare nelle contraddizioni e nei drammi strettamente umani di quella vicenda storica.
Gandini non si riteneva uno storico né un ricercatore, bensì un cronista. Scherzando sugli anni trascorsi al quotidiano bolzanino diceva che “un giorno scrivevo della crisi di governo, il giorno dopo del raccolto delle mele, il terzo di teatro e il quarto di un incidente stradale”. Una grandissima umiltà, un’autoironia degna di un vero uomo di cultura, onesto e pulito, senza alcuna velleità intellettualistica.
Via Rasella, Roma, 23 marzo 1944. Sono anni che lavoro su questi fatti – libri, documenti, sopralluoghi, le solite cose – e un giorno, chissà, pubblicherò quanto ne ho desunto. Certo è che adesso mi pare che senza la collaborazione di Gandini sarà tutto un po’ più difficile. Lui che si dichiarava orgogliosamente “comunista” e che riteneva l’attentato che scatenò la rappresaglia delle Fosse Ardeatine un “legittimo atto di guerra”, ciò nonostante non poteva fare a meno di guardare con un certo distacco alla vicenda e di dare giudizi spesso non in linea con una certa vulgata antifascista. “Se ogni soldato cui si chiede di sparare su un nemico, – mi diceva – se ogni bombardiere cui si chiede si sganciare bombe su una città conoscessero chi stanno per uccidere, nel 99 per cento dei casi non lo farebbero. Scoprirebbe che dietro il ‘nemico cattivo’, come tale descritto dalla propaganda, c’è un essere umano che non ha fatto niente di male. E la guerra diverrebbe impossibile”.
Rileggo ancora una volta quella sua mail: “È un periodo orribile”, scriveva. Lo è per tutti, certo, ma per lui lo era enormemente di più. Ma soprattutto da quelle parole traspariva una strana, enorme stanchezza. Anche nelle poche volte in cui ci siamo sentiti al telefono. “Mi tengono recluso, sono un detenuto”, scherzava, riferendosi all’isolamento in casa di riposo a Bolzano, dovuto alla pandemia. Poi la tragica malattia e la morte dell’amata moglie, fatti che lo hanno come annientato spiritualmente.“Guardi che ho bisogno di lei”, provavo a scuoterlo, “il contributo che può dare alla cultura e alla verità è ancora molto grande”.
Non mi ha voluto credere.
Ora riposi in pace.