La lettrice fedele e la “giusta distanza”

La lettrice fedele e la “giusta distanza”

Un giorno in redazione giunse una lettera. La vidi passare di mano in mano. Di chiunque la leggesse mi divertivo a studiare l’espressione di meraviglia che gli si formava sul viso. La cosa cominciò a solleticarmi la curiosità. Il Direttore scese dal piano di sopra e si lamentò della cagnara. Chiese che cosa stesse succedendo e si fece passare la lettera. Quindi la lesse attentamente. Anche l’espressione del suo volto cambiò più volte, come se quanto andava leggendo gli stesse rovistando qualcosa nelle zone più profonde dell’anima. Alla fine, coprendosi il volto con una mano, si accasciò su una sedia. Stava piangendo. In tanti gli si fecero attorno, provando a fargli coraggio. Alcuni sussurrandogli qualcosa all’orecchio, altri dandogli delicate pacche sulle spalle. Altri non resistettero alla commozione. Io non mi mossi di un solo centimetro. Restai lì pietrificato da tutte quelle lacrime, dalla strana atmosfera che si stava formando in quegli uffici. Pensai che il contenuto di quella missiva doveva avere una definitività tale da meritare l’attenzione di tutti, perfino la mia. Tuttavia ancora non mi muovevo. Non mi sentivo pronto ad affrontare la lettura, così come tutti gli altri avevano già fatto, subendone le conseguenze.
Dovevo aspettare pazientemente il mio turno, il momento giusto per affacciarmi sulla rivelazione che ci stava sconvolgendo la giornata. A volte il modo migliore per proseguire è guardarsi alle spalle. Provai allora a rifare con la mente il cammino di tutti quegli anni. Tutte le parole, i successi, gli scontri, le incomprensioni, gli insuperabili momenti di empatia e di condivisione, e poi il lavoro, le cose fatte, l’impronta – piccola o grande che fosse – lasciata nella storia di ogni giorno.
Aiutai il Direttore ad alzarsi, gli diedi un bicchiere d’acqua e lo feci accomodare su un divanetto. “Su, su”, gli dissi. “E che sarà mai?! Cosa diavolo c’è scritto su questo benedetto foglio?!” chiesi. Lui scosse il capo da destra a sinistra. “È finita”, disse sorridendo. “Adesso si è chiusa un’epoca. Il momento è arrivato per davvero”.
Non so perché, ma erano parole che sentivo di non poter accettare. Mi adirai con lui, nonostante fosse lui stesso a comandare lì dentro. “La smetta!”, gli intimai, alzando la voce. Quindi mi rivolsi ai presenti: “E voi tutti, piantatela per favore! Facciamola finita con questo scherzo! Datemi questo maledetto foglio!”, ordinai. Era stato piegato accuratamente in quattro. Lo aprii e cominciai a leggere.

A scrivere era un’anziana signora, una nostra abbonata storica. Diceva di aver sempre seguito con grande attenzione il nostro lavoro, sin dagli inizi. Con quella lettera voleva ringraziarci perché – proprio così scriveva – con il nostro lavoro eravamo riusciti, in tutti quegli anni, a dare un senso diverso al suo esistere. Non perché il nostro lavoro avesse una qualche prerogativa intellettuale o fornisse un’agenda al pensiero o un orientamento culturale, ma proprio per l’esatto contrario: perché – pur inseguendo una buona qualità – non aveva avuto la pretesa di farlo. Insomma, in tutti quegli anni, lei ne aveva percepito la bontà. E questo le bastava. Da cosa l’aveva capito? Qui la lettera si faceva ancora più intima e personale. La signora confessava di abitare dall’altra parte della strada, giusto nel palazzo di fronte alla redazione. Aveva già 70 anni negli anni Novanta, quando avevamo cominciato, e da allora ci aveva seguito con grande curiosità ed interesse. Invalida e costretta in casa, tutte le mattine ci vedeva arrivare in redazione, uno per uno. Aveva imparato addirittura a riconoscere le automobili di ognuno. Le sue giornate le iniziava facendo due cose: mettendo su il caffè e scostando le tendine, per verificare chi fosse già arrivato in ufficio e chi ancora no, segnandosi magari chi quel giorno non sarebbe venuto, perché ammalato o impegnato altrove. Poi se ne stava lì, a sorseggiare il suo caffè e a pensare a noi che stavamo dentro le quattro mura là di fronte, a battere i tasti dei computer o a parlare al telefono. Non riusciva a spiegarsi bene il perché, ma – diceva sempre nella lettera – la faceva stare così bene saperci tutti lì a scrivere, a preparare la rivista che a fine mese avrebbe avuto a disposizione sul tavolo della sua cucina.

La lettera diceva così: «Grazie a tutti voi! Grazie per il lavoro che con precisione ed efficacia avete fin qui svolto. La vostra rivista mi ha fatto compagnia fin dal 1991, quando ho dovuto lasciare la mia amata terra d’origine, in Sudamerica. È stato proprio grazie ai vostri articoli, alle rubriche che ho potuto imparare l’italiano, comprendere meglio la cultura di questo territorio, la sua storia, la complessità che un po’ ricordava la mia perduta patria. Grazie a voi ho imparato ad amarla questa terra: la terra dove il destino mi aveva portato a vivere. Una terra bellissima e, soprattutto, libera. Ed io amo così tanto la libertà… E vi vorrei raccontare brevemente anche il perché.
Quando ero piccola, al mio Paese abbiamo dovuto subire molti soprusi ed umiliazioni. La nostra piccola nazione era governata da un dittatore feroce e senza scrupoli, che disponeva delle nostre vite in modo spietato. Lo fece per molti anni, senza che il Governo disponesse di un’opposizione. Ogni tentativo di protesta veniva puntualmente represso nel sangue. Ci facemmo l’abitudine. Finché un giorno al palazzo del Presidente arrivò una lettera. L’aveva scritta una bambina di 9 anni. Era una favola che – come tante altre – parlava del bene e del male. In questa però non c’erano cavalieri, principesse ed orchi, bensì lavoratori. Per descrivere e assegnare una morale rispetto al bene e al male, quella bambina aveva scritto del lavoro. Non un lavoro in particolare, ma “il” lavoro, come attività capace di dare un senso alla vita delle persone. Diceva che non basta lavorare per essere uomini e donne: occorre che il lavoro fatto sia “buono”. Tutto quello che c’è nel mondo si divide tra frutti di un lavoro “buono” e scorie di un lavoro “cattivo”. Insomma, era una fiaba bellissima, che lasciò il feroce dittatore senza parole per lunghi giorni. Pare che smise anche di mangiare e di dormire, tanto ne restò sconvolto. Al punto che dopo 7 giorni, senza dare altre spiegazioni, indisse pubbliche elezioni, rimettendo il mandato davanti al Parlamento, e chiedendo scusa in diretta televisiva per le nefandezze avvenute sotto il suo regime.
Devo confessarvi un’altra cosa – o forse lo avrete già capito: quella bambina ero io. E se ho voluto raccontarvi questa storia è perché voglio dirvi che il vostro è stato un lavoro “buono”. Mi avete aiutata ad essere quello che sono, a vincere la dittatura della noia e allo stesso tempo la deriva dell’intellettualismo. La giusta distanza, ecco. Mi avete insegnato la giusta distanza. Grazie, dunque, a tutti voi! E addio!»

Alzai gli occhi e mi accorsi che ognuno era tornato alle sue attività. Nessuno sembrava più badare a me e alla misteriosa lettera. Allora, lo sguardo portò la mia attenzione al di là della strada, al portone del palazzo di fronte. C’era movimento, alcune persone si indaffaravano a spostare qualcosa di scuro. Uscii dalla redazione e mi avvicinai. Lessi il mittente e cercai quel cognome sul citofono. Schiacciai il pulsante corrispondente a quel nominativo senza pensare troppo a cosa avrei mai potuto rispondere. Attesi qualche secondo. Pigiai una seconda volta. Passò un minuto, quindi due. Non rispondeva nessuno. Uno degli uomini mi chiese allora se stessi cercando qualcuno. Gli mostrai la busta, ed il nome del mittente. Quello mi fece uno strano sorriso, e mi indicò il manifestino che avevano appena affisso all’entrata del palazzo. Lo lessi: Dolores G. di anni 98 era deceduta tre giorni prima, serenamente, munita dei conforti religiosi e dell’affetto dei suoi cari. Un brivido mi corse lungo la schiena. Il Direttore e tutti gli altri colleghi – giornalisti, amministrativi, addetti alla diffusione, impaginatori – stavano osservando muti la scena da dietro la vetrina. Da quel momento in poi qualcos’altro ci avrebbe accomunati. Forse quella punta di orgoglio che, piano piano, ci stava gonfiando il cuore.