Quando l’ingegner Hans Castorp arriva al sanatorio di Berghof, a Davos, nel cantone dei Grigioni, ancora non sa che vi resterà per ben sette anni. L’idea iniziale è quella di trascorrervi tre settimane, giusto il tempo per far visita al cugino Joachim, lì ricoverato a causa della tubercolosi. Ma mai dire mai, nella vita. Le cose succedono e spesso la volontà non può farci proprio un bel nulla. Ho sempre pensato, infatti, che quella della visita di cortesia fosse solo un pretesto e che Castorp abbandoni la produttiva Amburgo rispondendo al richiamo della “Montagna magica” (meglio conosciuta nell’edizione italiana come “La montagna incantata”). Si tratta di un richiamo irresistibile, che trasmette su una gamma di frequenze posta tra l’introspezione e il suicidio, e si concretizza uditivamente attraverso i raschi e i fischi polmonari dei pazienti tubercolotici. Il sogno, la malattia, la morte: c’è proprio tutto nella cassetta degli attrezzi del Berghof. Tutto quel che occorre per mettere gli occhi sulla vita, sul senso di tutto quanto.
Anche Jack Torrance arriva all’Overlook Hotel convinto di trascorrervi un solo inverno, ma non ha fatto i conti con la fascinazione – così amava definirla Pietro Citati – a cui è pressoché impossibile resistere. Ne sa qualcosa perfino Jack che in “Shining” perderà la ragione o forse – la cosa non è ancora ben chiara – la ritroverà. La fascinazione a cui ci si accoda quando si sta cercando qualcosa. Il cambiamento è una boutique. Un negozio molto elegante nel quale si possono acquistare i vestiti dell’uomo nuovo. Sì, probabilmente lo stesso di cui San Paolo scrive agli abitanti di Efeso.
Se con il suo romanzo Thomas Mann pensò di ritrarre la fine di un’era, il declino della Belle Époque, e Stephen King utilizza la sua caratteristica, allucinata narrazione per elaborare un problema di alcolismo, per il cliente della nostra boutique, Paolo di Tarso prefigura la liberazione dalla schiavitù delle passioni, in favore di una rinnovata tensione morale.
Tutto questo ci conduce al tema della cura.
È solo attraverso una terapia che un cambiamento è possibile. Ma il primo stadio di tale terapia nulla ha a che vedere con farmaci o trattamenti, peraltro spesso discutibili (il regolamento del Berghof prevede che si dorma due ore sul balcone della propria camera, dalle 8 alle 10…).
Passeranno i mesi, e al giovane ingegnere tedesco apparirà subito chiaro che è di una discesa agli inferi che c’è bisogno per poter guardarsi dentro, fissare la propria insoddisfazione, possibilmente senza impazzire.
Una “discesa” che per Castorp si rivela in realtà una salita, quella verso la “montagna magica”, la cima delle nevi eterne; luogo dove riesce a guardare in faccia il destino e a percepire un significato ultimo, leggendolo nella propria stessa biologia, nell’impercettibile ma costante decadimento del corpo, nei rintocchi del countdown iniziato il giorno della propria venuta al mondo.
Certo, la neve è un elemento presente anche in “Shining”. L’Overlook Hotel ne è ben presto avvolto. Ma più che da drappo funebre, quel manto di bianco accecante è uno scialle battesimale: segna cioè un nuovo inizio. Jack Torrance ascolta la voce del padre che attraverso una radio, proveniente da un’altra dimensione spazio temporale, gli esprime tutto il suo disprezzo. È il passato che non ci abbandona, l’uomo vecchio che tiene per la giacca la sua naturale evoluzione, la dipendenza che cerca di uccidere ogni speranza di sobrietà.
Ma la discesa agli inferi, si sa, non può durare un solo istante. C’è il tempo per farsi un ultimo giro sulla giostra dei sentimenti umani, guidati da un Virgilio che ben rappresenti la nostra coscienza davanti al tribunale del Destino. Mentre per Castorp dapprima è suo cugino Joachim, sostituito ben presto da un altro paziente del sanatorio, l’umanista Lodovico Settembrini, ad orientare Jack Torrance ci pensano il fantasma del precedente custode, Delbert Grady, e l’indimenticabile barman Lloyd, che lo serve proprio in un’atmosfera da Belle Epoque (riportandoci sorprendentemente, in questo particolare, al romanzo di Mann).
E le passioni? Che dire di questi inciampi che spesso incasinano le ore? Se Castorp riesce ad uscire pressocché indenne dall’innamoramento per la conturbante Claudia Chauchat, Torrance soccombe a quella, malriposta nel suo caso, per la scrittura.
La fascinazione finale, naturalmente, è quella – suprema – per la morte. In questo, i nostri due protagonisti seguono percorsi davvero molto simili. Le epoche e le circostanze sono diverse, è chiaro, ma c’è qualcosa di inquietante ad accomunare, nell’epilogo, queste due esistenze. Qualcosa che ha a che fare con il tempo, sull’illusione che governa il mondo, sulla quale né Mann né tanto meno King paiono fare però molto affidamento.
L’orologio di Hans Castorp cade dal comodino e si rompe, le lancette smettono di girare. A quel punto, il tempo non esiste più. Come nell’Overlook Hotel, d’altra parte, anche al Berghof tutto pare avvolto da una clamorosa relatività temporale. Ogni cosa avviene in ogni momento e al contempo non accade mai.
Nonostante tutto, di un decesso la “causa” è sempre la parte più trascurabile. In “Shining” è l’esplosione della caldaia causata da una misteriosa entità (nella trasposizione cinematografica, Stanley Kubrick farà morire Jack Nicholson assiderato). “Zauberberg” si chiude invece con la partenza di Castorp che, anziché tornare verso la frenesia lavorativa di Amburgo, si dirige tra le braccia della Prima guerra mondiale. Egli lascia Davos, la neve, l’amore, la saggezza, la follia, il consolante abbraccio della malattia, per andarsi ad arruolare e – si presume – ad incontrare, presto o tardi, la morte sul campo di battaglia.
Le cose succedono e spesso la volontà non può farci proprio un bel nulla. Altre volte, invece, il libero arbitrio – orientato da qualche tipo di fascinazione – riesce a concedere l’illusione che esista davvero un’ultima possibilità di scegliere il proprio destino.
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