La serenità è un concetto sopravvalutato, dice Douglas Coupland. La gente invoca il cambiamento e poi, una volta ottenuto, si domanda se fosse davvero tutto lì quanto era stato invocato. Delusa, parte subito con la richiesta di un nuovo cambiamento, accorgendosi che la serenità promessa e auspicata semplicemente non esiste. È solo il nome che possiamo dare allo stato d’animo di un istante, ma non è spendibile su un tempo che vada oltre quella durata, tanto meno su una vita intera.
Dopo lo spietato “In tutto c’è stato bellezza”, lo spagnolo Manuel Vilas torna a raccontare una storia di famiglia e di famiglie, sempre in bilico tra autobiografia e invenzione. “La gioia, all’improvviso” (Guanda, 413 pagine, Euro 19,00, traduzione di Bruno Arpaia) conferma innanzitutto che Douglas Coupland ha proprio ragione. Non esiste una cosa chiamata “serenità”. “La pace è un’utopia”, scrive il 58enne autore iberico. “Non c’è pace in chi vive veramente. La pace è la superstizione del genere umano”. E non esiste certo nelle giornate di uno scrittore diventato improvvisamente famoso, che gira per gli alberghi di tutto il mondo, da un festival all’altro, presentando un libro in cui racconta delle proprie paure, dei fantasmi, e di come nella vita e nella storia, nonostante milioni di corpi e milioni di domande, alla fine si rimanga sempre “soli e intirizziti”, con un disperato bisogno di dare un senso a quello che facciamo. Ad ogni cosa. Ad ogni volto.
Autofiction, memoir, make of: chiamatelo un po’ come volete. Manuel Vilas rimette se stesso e la propria famiglia in un libro e dice che è la cosa più bella che abbia mai fatto in vita sua. Perché infatti inventarsi una trama, personaggi, intreccio, quando sono già pronti su un piatto d’argento? (Il dibattito nel mondo letterario è aperto.) E perché limitarsi a vivere (e dunque raccontare) solo il presente e il visibile?
Viaggiamo allora con lui, negli States soprattutto, per promuovere il suo primo libro, con la moglie americana, tra il presente preda del grande capitalismo universale (“Gli uomini credono di vivere e di godersela, mentre in realtà muoiono e ardono nel vuoto”) e il passato che “viene con il coltello tra i denti”.
Dormiamo con lui nelle grandi camere d’albergo dalle finestre sigillate (lo fanno per impedire che la gente si butti di sotto). Prendiamo i suoi stessi ansiolitici. Ne condividiamo i dubbi e le paure. Concordiamo con lui quando in ogni camera – Chicago, Iowa City, ecc. – scorge le fattezze della cameretta dell’infanzia. Di più, dell’utero materno da cui – dice – ”non avrei mai dovuto uscire”.
Si badi, quella di Vilas non è disperazione, piuttosto una lucida consapevolezza. Ma soprattutto la conseguenza di una presenza che aleggia costantemente su di lui. Una presenza reale, quanto intangibile. Sto parlando di un “essere” che egli ha conosciuto da bambino, durante una gita in campagna, mentre si immergeva in un fiume. Un angelo, un essere soprannaturale – quello che volete –, che gli insegnò a guardare “il vuoto che si estende su tutte le cose”. E come tutti i protagonisti dei suoi libri, anche questo porta il nome di un musicista: Arnold, come Schönberg, l’inventore della musica dodecafonica. Arnold è “il re del mondo”. È terribile. Onnipresente. Instancabile. Bracca il protagonista, ma anche il lettore, senza nessuna tregua. Si diverte a provocare in lui quell’ “eccesso di coscienza” che è la sua croce, ma anche il senso profondo del suo vivere. Arnold è sempre lì – durante un firmacopie, prima di una presentazione, mentre addenta un hamburger in un fast food –, pronto a mutare ogni volta in frustrazione quella voglia matta di vivere che talvolta prende il nostro scrittore, e gli fa pensare di poter fare chissà cosa, di andare chissà dove.
Bellezza, gioia, pienezza sono parole che trovano nuove definizioni in “La gioia, all’improvviso”. Il tutto immerso in una spasmodica ossessione della morte che però ha un suo fascino (“La morte non è brutta. Siamo stati noi a renderla così”).
Naturalmente tutto ciò all’ombra di Wagner e Bach, la madre e il padre già conosciuti nel primo libro: qualcosa di più di un ricordo. Presenza viva e costante, dialogante, che la morte non è riuscita a scalfire nemmeno un po’. Al punto da far affermare a Vilas che: “per quante cose il futuro dell’umanità potrà portare, non ti perderai nulla se mantieni viva tua madre attraverso i tempi”.
Ma sarà la gioia alla fine a prevalere. Pur se incomprensibile, eppure tanto consolante e curativa. Ambrosia per il petto dell’eroe ferito, un uomo che finalmente riesce ad accettarsi per come è. “Ci ho messo 56 anni a perdere la paura di me stesso”, scrive. “Non so chi sono, e non lo saprò mai, ma non mi faccio più paura”. Almeno in questo Arnold, lo spietato Arnold, è stato sconfitto. Oltre il presente, oltre il visibile.